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seminario corso P/MRS esami maggio
2001
relazione finale di massimiliano
pelosi
LA FORMA DEL DISCORSO SOCRATICO NELLA STRUTTURA DELL' APOLOGIA DI PLATONE
Lo scopo della filosofia è quello di aiutare l'uomo a venire in chiaro a se stesso, portarlo al riconoscimento dei suoi limiti e renderlo giusto, cioè solidale con gli altri. Socrate prese perciò come suo motto ciò che era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, e cioè “gnoti sautòn" - "conosci te stesso". E "conosci te stesso" vuole appunto dire: riconosci in primo luogo quello che sei, e cioè un uomo. Può essere considerata questa la fondazione del dialogo formativo e del significato di 'dialettica' quale collante in grado di legare le diverse tipologie di comunicazione?
APOLOGIA
DI SOCRATE
Socrate
(469 a.C.-399 a.C.)
Socrate nacque ad Atene nel 469 a.C. da Sofronisco, scultore, e da Fenarete, levatrice.
Si avvicinò giovanissimo alla filosofia e conobbe Anassagora ed i Sofisti.
Anassagora
di Clazomene (nato verso il 500
a.C.) riteneva che di nessuna cosa si possa dire che nasca o muoia, ma solo che
si compone e si separa; Anassagora non si serve dell’Intelletto o Mente per
spiegare l’ordine delle cose e ricorre invece agli elementi naturali, a meno
che non si trovi in imbarazzo ed allora ricorre al Nous come un deus ex machina.
I
Sofisti (dalla parola sophistés, che vuol dire "colui che fa professione
di sapienza") sono attivi nel mondo greco tra la metà e la fine del 5°
sec. a.C. Essi sono portatori di una profonda rivoluzione culturale poiché
concentrano sull'uomo i loro interessi: essi non accettano più la sacralità
delle tradizioni e sciolgono così il legame tra l'uomo e il cosmo, che tutta la
riflessione filosofica precedente aveva avuto cura di mantenere.
Con
loro si ha anche una svolta importante nella concezione dell'educazione: non
basta più conoscere Omero, Esiodo, Solone, né avere pratica di una singola
attività, ma occorre rendere l'uomo, per mezzo di una formazione culturale
nuova, capace di dominare i suoi simili con l'intelligenza, con una superiore
abilità: ecco dunque il ricorso a tecniche retoriche ed eristiche (ragionamenti
sottili e speciosi), come i sofismi, per persuadere o dimostrare qualunque cosa.
I
Sofisti propongono quindi loro stessi come i maestri adatti a formare una nuova
classe politica in possesso di tali capacità. Essi erano naturalmente
spregiudicati e chiedevano un pagamento per le loro prestazioni. Ciò fa sì che
il loro insegnamento sia rifiutato da parte della vecchia aristocrazia (che
disprezzavano il loro modo di fare) e d'altra parte non sia accessibile alle
persone non ricche. Essi infatti sono i maestri dei nuovi ricchi di Atene, di
quella classe di artigiani e commercianti che sta sempre più formando il nucleo
politico portante della città.
Scorate combatté in varie battaglie (Potidea, Delo, Anfilopi) dimostrando particolare coraggio e forza d'animo. Si dedicò quindi completamente alla ricerca filosofica e, in breve tempo, ebbe molti discepoli (fra cui Platone).
Socrate non scrisse nulla e tutto ciò che sappiamo di lui lo dobbiamo in massima parte a Platone (che fa di lui il personaggio principale di quasi tutti i suoi Dialoghi) e a Senofonte.
Socrate non scrisse nulla volutamente perché come egli sosteneva, la filosofia non si poteva limitare a qualcosa di scritto, visto che nessuno scritto - secondo Socrate - può stimolare alla ricerca ma può solo comunicare una dottrina.
In altri termini, la filosofia era vista da Socrate come un dialogo continuo, un esame incessante di sé e degli altri e non un insieme di teorie preconfezionate.
Lo scopo della filosofia è quello di aiutare l'uomo a venire in chiaro a se stesso, portarlo al riconoscimento dei suoi limiti e renderlo giusto, cioè solidale con gli altri. Socrate prese perciò come suo motto ciò che era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, e cioè “gnoti sauton" conosci te stesso". E "conosci te stesso" vuole appunto dire: riconosci in primo luogo quello che sei, e cioè un uomo, per cui un abisso ti separa dal divino!
Fu questa, forse, la più alta forma di ammonimento da parte di un dio greco.
Questa massima, la più conosciuta del pensiero greco, non perse mai il suo valore ed ecco spiegato perché Socrate poté accoglierla come sua.
Per conoscere noi stessi, la prima condizione è quella di riconoscere le proprie possibilità ed i propri limiti, cioè liberarci dalla vana presunzione di sapere tutto (come sostenevano ad es. i Sofisti).
Per raggiungere l’obiettivo, Socrate si serviva di un particolare metodo che ha i suoi punti salienti nella ironia e nella maieutica.
L'ironia (dissimulazione, finzione) è quell'insieme formale di domande, interrogativi, provocazioni paradossali di cui Socrate si serviva per distruggere la presunzione di sapere del discepolo, per far quindi sorgere il dubbio sulle proprie conoscenze riconoscendone la fragilità, e per impegnare successivamente il discepolo nella ricerca della verità libero ormai da pregiudizi e illusioni.
Dopo aver distrutto il sapere fittizio del discepolo, Socrate non vuole però che egli si appropri delle teorie eventuali del maestro. Socrate non vuole dare al discepolo una sua dottrina, bensì lo vuole stimolare nella ricerca della sua, personale verità.
Questo modo di procedere è la maieutica, l'arte della levatrice, che la madre di Socrate, Fenarete, esercitava. come la levatrice aiuta le donne a partorire i figli, così Socrate vuole aiutare il discepolo a partorire da solo la verità.
La ricerca della verità è, al tempo stesso, la ricerca del vero sapere e del modo migliore di vivere. Infatti l'uomo non può che tendere a scoprire quello che è e quello che deve fare per vivere nel modo migliore. Ma questo vuol dire che colui che conoscesse il bene, dovrebbe agire di conseguenza e vivere secondo virtù. Si tratta soltanto di sapere che cosa è veramente il bene.
Il bene per l'uomo è ciò che fa sì che egli diventi quello che la sua natura più profonda esige. Se io rifletto, potrò giungere a scoprirlo, per cui è proprio il sapere, la conoscenza, che permette all'uomo di conoscere se stesso e quindi di conoscere qual è il modo più adatto per vivere felice.
Colui che sa - secondo Socrate - sa far bene i propri calcoli e sceglie in ogni caso la cosa migliore per lui, indicata dai greci col termine di areté. La vera felicità pretesa da Socrate è quella duratura, la quale non può essere la felicità del corpo, che è caduco, ma soltanto quella dell'anima, che è immortale.
Il motto delfico vorrà allora dire, per Socrate, "conosci la tua anima", "conosci la tua psyché", giacché l'uomo, nella sua essenza più profonda, non è altro che la sua anima. Se "compiere ciò che è proprio a ciascuno" è per Socrate il principio di ogni atto morale, con questa affermazione egli da un lato si ricollega ad un qualcosa che era profondamente radicato nella concezione del tempo (l'areté come eccellenza, abilità, capacità) ma dall'altro, con lui per la prima volta, si rende indipendente dal giudizio degli altri, dalla gloria e dall'onore. ecco la grande novità socratica: non è più l'opinione degli altri, sia pure quella dei buoni e dei giusti, che deve determinare l'uomo.
Ciascuno deve invece "conoscere se stesso" e sviluppare ciò che è "proprio" della sua natura, senza preoccuparsi delle cose altrui, finché non sia in chiaro con se stesso. In breve, l'uomo veramente libero è colui che usa il proprio corpo e le cose senza esserne schiavo, è dunque colui che sa dominare se stesso, dirigere i propri impulsi e istinti senza negarli ma usandoli senza eccedere. Colui che al contrario diventa schiavo dei suoi istinti, lo fa perché, secondo Socrate, non ha riflettuto abbastanza, non ha conosciuto qual è la verità e la felicità.
"Pecca" insomma per ignoranza, giacché crede che quelle cose siano per lui le più adatte. Un errore di giudizio è quindi alla base di ogni colpa e di ogni vizio. Al contrario, se uno sapesse veramente qual è la cosa più giusta, si comporterebbe, per Socrate, di conseguenza, e non "peccherebbe" più perché non ci si può rendere schiavi, direbbe Socrate, di ciò che non ha valore. Quello che Socrate sostiene è un ideale molto alto, che forse è accessibile soltanto a pochi.
Tuttavia la sua è una vera e propria svolta rispetto ai Sofisti. Se infatti in precedenza alla domanda "che cos'è la virtù", si era risposto nei modo più diversi: è il coraggio, è la giustizia, è la forza, oppure non esiste, ora, con Socrate, si vuole conoscere qual è l'elemento universale, il Bene, che fa del coraggio, della giustizia, della forza altrettanti beni.
A questo problema, come sappiamo, Socrate non giunse a rispondere.
E' celeberrima la sua affermazione a riguardo: io so di non sapere! .
Eppure tutto ciò non lo porterà né verso lo scetticismo né verso il nichilismo. In primo luogo perché egli aveva una fede assoluta nel significato di una azione condotta in conformità a ciò che si ritiene sia il bene: si ricordi che Socrate ha suggellato questo insegnamento con la sua morte.
In secondo luogo, egli era convinto che l'uomo deve impegnarsi a fondo nella conoscenza, anche se non potrà raggiungere un sapere perfetto. E' questo il mezzo migliore per raggiungere la felicità, giacché "una vita senza ricerca non è vita umana".
Nel corso del programma di Metodologia didattica, trattando di comunicazione, è stato fatto riferimento al Metodo Socratico; precisamente si è cercato di comprendere il significato di Dialettica quale collante in grado di legare le diverse tipologie di comunicazione.
Alla dialettica è stato attribuito infatti un significato filosofico, come esercizio di discorso che si sviluppa attraverso la formulazione di una tesi, un’ esercizio dialettico per confutare la tesi cioè l’antitesi e si conclude con una sintesi che rappresenta un nuovo punto di partenza cioè una sintesi di livello superiore.
La dialettica è stata quindi definita come “arte del ragionamento tramite opposizione”.
Parlando di metodo didattico, è stato altresì affermato, che esso deve essere maieutico, (facendo riferimento alla maieutica socratica intesa dunque come arte in grado di far partorire le idee), basato cioè su esercizi logici, non mnemonici, che presuppone quindi un dialogo formativo in grado di favorire un apprendimento significativo per scoperta (sulla base di quanto indicato da Ausubel), attraverso la ricerca e la confutazione come miglior tipo di apprendimento.
Socrate infatti ha insegnato che la verità è dentro ognuno di noi e il filosofo deve solo favorire la scoperta e farla partorire.
L’Apologia, scritta nella forma del discorso forense attico, è la difesa di Socrate, liberamente rielaborata in termini letterari da Platone, di fronte all’accusa mossa da Anito, Meleto e Licone (399 a.c.) di corrompere i giovani e di introdurre nuove divinità nella polis.
L’apologia consta di tre discorsi:
1. la difesa giudiziaria propriamente detta ( I – XXIV);
2. l’aggiudicazione della pena (XXV – XXVIII);
3. le ultime parole ai giudici (XXIX – XXXIII).
I
tre discorsi espongono il conflitto fra la comunità politica e la scelta di
vita filosofica esemplarmente incarnata in Socrate.
Primo discorso. _ Il primo discorso è un autoritratto di Socrate in cui egli prende le distanze dalla filosofia della natura dei primi pensatori greci e dalla sofistica, e presenta la propria condotta di vita come un’indagine su se stesso. Essa sfocia nel “sapere di non sapere”, che è innanzitutto una critica della normale condotta umana che include il progetto di un fine e di un fondamento esistenziale interiore.
La difesa giudiziaria si distingue a sua volta in cinque parti:
Esordio – Proposizione – Prova – Disgregazione e Perorazione.
Nell’esordio Socrate, riferendosi ai propri accusatori, afferma che essi non hanno detto nulla di vero e promette di dir lui la verità nella forma semplice e familiare che gli era abituale.
Nella proposizione egli accenna a due sorti di accuse che gli sono state rivolte da due diverse classi di accusatori, chiedendo che gli sia consentito di confutarle ad iniziare da quelle più antiche che sono anche le più gravi e difficili da combattere.
Nella prova enuncia dapprima le vecchie accuse, che egli formula così:
1.
d’essersi dedicato a ricerche vane e temerarie;
2. d’insegnare ai suoi discepoli il modo di far trionfare, parlando, il falso e l’ingiusto.
Egli nega risolutamente l’uno e l’altro addebito; non ha mai fatto codeste ricerche, non ha mai insegnato ad altri; ma poiché queste accuse erano sulle bocche di moltissimi, egli sente il dovere di spiegarle donde fossero nate.
Scorate ne trova l’origine nei lunghi e pertinaci tentativi fatti da lui, per rendersi conto della ragione, per la quale egli, che pur era pienamente conscio della propria ignoranza, fosse stato dal ‘dio’ di Delfi proclamato il più sapiente degli uomini.
Ora egli, sottoponendo ad una specie d’esame i cittadini di maggior fama in tutte le classi sociali, aveva finito per dover riconoscere che il ‘dio’ non s’ingannava, in quanto che, mentr’egli non sapeva ne credeva di sapere nulla, gli altri erano ben più ignoranti di lui, giacché, non sapendo, credevano di sapere.
Egli era venuto in odio a un gran numero di persone, le quali s’immaginavano ch’egli reputasse sé sapiente in quelle cose, in cui metteva a nudo l’ignoranza degli altri; e perché molti specie tra i giovani che lo udivano, si studiavano a loro volta d’imitarlo.
Profittando di quest’onda d’odio, Meleto, Anito e Licone erettisi a difensori di poeti, artefici e uomini di Stato, avevano presentato un’accusa formale incolpando Scorate di:
1. corrompere i giovani;
2. di non riconoscere e venerare come ‘dei’ quelli che la città credeva tali.
Scorate in un contraddittorio con Meleto gli prova :
1. che non ha il diritto di accusarlo di corrompere i giovani perché non sa in che consista il migliorarli e chi li migliori; e posto pure che li corrompesse poiché non poteva farlo volontariamente, meritava d’essere ammonito e non castigato;
2. che l’accusa d’ateismo non è chiara.
Confutate le accuse, Scorate nella disgregazione confessa di non dissimularsi il pericolo che lo minacciava per l’odio che gli ha procurato quella sua missione di vivere filosofando e scrutinando e ammonendo i propri concittadini. Ma questa missione, giacché imposta da ‘dio’ è un dovere, e rinunziarvi sarebbe mancare al dovere e ciò a parer suo è peggio della morte, poiché mentre di questa nessuno sa se sia un bene od un male, egli sa che il venir meno al dovere è senza dubbio un male.
Nella perorazione Scorate si rifiuta di ricorrere alle solite arti per commuovere i giudici, come indegne di ogni uomo che si rispetti, e contrarie alla giustizia.
Secondo discorso. _ L’oracolo delfico, che dichiara Socrate il più sapiente lo legittima insieme al suo demone; è questa legittimazione a far si che nel secondo discorso, Socrate dopo il verdetto di consapevolezza pretenda per se, invece della pena il mantenimento del Prinateo (il più alto onore ad Atene).
Dichiarato reo, Scorate riprende la parola per dire quale pena egli proponga per sé in opposizione a quella chiesta dall’accusatore. Se non che, dopo d’avere espressa la propria meraviglia per lo scarso numero di voti ottenuto dagli avversari, dichiara che egli, poiché si crede non colpevole, sente di meritare non una pena ma un premio.
Terzo discorso. _ Poiché la sua proposta è respinta ed accolta invece quella dell’accusa, il filosofo si rivolge sia a coloro che lo hanno ingiustamente condannato, ai quali dice che saranno a loro volta condannati dalla verità perché non riusciranno mai a sopprimere la libertà d’indagine, di critica, di parola che hanno voluto colpire in lui, sia a quelli che lo hanno assolto, i soli che egli degna del nome di giudici e che li esorta a temere non la morte ma il venir meno al proprio dovere.
L’apologia platonica, per quanto ne serbi le forme, non somiglia alle solite difese giudiziarie; Socrate non mostra d’annettere una grande importanza; cerca di sbrigarsene in breve, e, per di più, senza rispondere in modo preciso ed esauriente agli addebiti che gli muovono.
Nell’apologia si trovano di fronte due opposte concezioni della vita e due diritti: quello dell’individuo che reclamava la sua libertà di pensiero e di parola, e quello dello Stato che credeva di doversi difendere contro tendenze che mirassero a dissolverlo.
Perciò il pericolo vero, da cui Scorate si sentiva minacciato, nasceva soprattutto da quell’atmosfera di sospetto e d’avversione che in lunghi anni s’era venuta formando intorno alla sua persona ed alla sua opera di cittadino e di educatore e della quale pareva perfino ch’egli si compiacesse, non risparmiando le sue censure nemmeno agli uomini più rappresentativi della politica e dell’arte.
Socrate si proponeva di ricostruire su nuove basi la coscienza morale e politica dei concittadini. Per conseguire quest’ideale, che costituiva la missine e lo scopo della sua vita, doveva prima d’ogni altra cosa combattere tutto un insieme formidabile di giudizi inconsapevoli e d’opinioni largamente diffuse su cui pur s’era retta la società ateniese.
Per tentare di difendersi in modo efficace, ma non indegno di sé, Socrate non poteva che insistere sulla propria innocenza e sulla bontà delle sue intenzioni. Così lo vediamo in questa apologia presentare ai giudici l’immagine intera di sé medesimo, dei fini della sua vita, del valore intellettuale e morale dell’azione sua.
Quand’egli si addentra nella parte positiva della sua difesa, il tono del suo discorso, che fino ad allora era apparso molto dimesso, lento, impacciato, diviene concitato, animato da una fede che attesta quanto fosse alto il concetto del divino di quest’uomo che i nemici accusavano d’irreligione. Egli non fa altro che raccomandare a tutti d’aver cura dell’anima più di ogni altra cosa, poiché la virtù è il maggior bene per gli uomini.
Dichiarato reo, diventa anche più sarcastico ed aggressivo.
Lungi dal riconoscersi le colpe che gli attribuiscono, proclama altamente le proprie benemerenze verso la città.
Condannato a morte non se ne duole né se ne commuove; ha parole di aspro rimprovero verso quei cittadini che non gli hanno reso giustizia, parole d’amore e di conforto per quelli che hanno votato a favor suo.
L’apologia ha proposto in modo decisivo al pensiero occidentale il motivo dell’autoconsapevolezza dell’uomo: non a caso Kierkegaard e Nietzsche si sono confrontati a fondo con questo testo.
per la citazione delle fonti utilizzate cfr.
Ferdinando Dubla – [sezione Manuali]
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