Si riporta, di seguito, una grande pagina della letteratura pedagogica e una” summa” del pensiero e della prassi di Makarenko, tratta dalla sua opera più significativa “Il poema pedagogico”, scritto nel 1928, pubblicato da Gor’kij dal 1933 al 1935 e che rievoca l’esperienza della colonia Gor’kij (1919-28). Citiamo dall’edizione degli Editori Riuniti (Roma, VII edizione, settembre 1971, trad. di Leonardo Laghezza, introduzione di L.Lombardo-Radice, voll.3), evidenziando in corsivo stralci che ci sono sembrati particolarmente rilevanti. (fe.d.)
A.S.Makarenko
Alle pendici dell'Olimpo
II maggio e il giugno a Kuriag furono terribilmente pieni di lavoro. Ora non voglio parlare di questo lavoro con entusiasmo.
Se si considera il lavoro con occhio sereno, è necessario riconoscere che esistono molti lavori pesanti, spiacevoli, per nulla interessanti, che molti lavori esigono una grande pazienza, l'abitudine a superare nell'organismo sensazioni dolorose e opprimenti. Molti lavori sono possibili solo perché l'uomo è abituato a soffrire e a sopportare.
Gli uomini hanno imparato da molto a superare il peso del lavoro, il senso di ripulsione fisica che esso suscita, ma la ragione di tale superamento, ormai, non sempre ci soddisfa. Data la debolezza della natura umana, anche oggi noi tolleriamo alcuni motivi di soddisfazione personale, di benessere personale, ma tendiamo continuamente a educare ampie motivazioni di interesse collettivo. Tuttavia molti problemi in questo campo sono estremamente aggrovigliati e a Kuriag ci toccava risolverli quasi senza alcun aiuto dall'esterno.
Prima o poi la vera pedagogia elaborerà questo problema, analizzerà il meccanismo dello sforzo umano, indicherà quale posto vi spetti alla volontà, all'amor proprio, alla vergogna, alla suggestione, all'imitazione, alla paura, all'emulazione e come tutto ciò si combini con manifestazioni di pura coscienza, convinzione, razionalità. Tra l'altro, la mia esperienza conferma decisamente che la distanza tra gli elementi della pura coscienza e il mero dispendio muscolare è piuttosto notevole e che è assolutamente necessaria una certa catena di elementi di collegamento più semplici e più materiali.
Il giorno in cui arrivarono a Kuriag i «gorkiani» fu risolto molto bene il problema della coscienza. La folla di Kuriag nello spazio di un solo giorno fu costretta a convincersi che i nuovi reparti, giunti da fuori, le avevano portato una vita migliore, che erano giunti degli individui che recavano con sé notevole esperienza e possibilità di aiuto e che con queste persone si doveva continuare la strada. L'elemento decisivo non era neppure quello del vantaggio individuale; nel nostro caso, evidentemente, si trattava di una suggestione collettiva, il fattore decisivo non erano i calcoli, bensì gli occhi, le orecchie, le voci e le risa. Tuttavia, già dopo il primo giorno i «kuriagiani» desideravano ardentemente di diventare membri del collettivo «gor-kiano» se non altro perché si trattava di un collettivo, cioè di un piacere che non avevano mai provato nella loro vita. [...]
Io stesso passai in rassegna i reparti misti: il quadro era ovunque identico. Le iniezioni di elementi «gorkiani» erano ovunque insignificanti, la superiorità numerica dei «kuriagiani» saltava agli occhi e c'era da temere che s'imponesse anche il loro stile di lavoro, tanto più che tra i «gorkiani» molti erano dei novellini, mentre alcuni anziani, affondando nella melma «kuriagiana», correvano il pericolo di scomparire del tutto quale forza attiva. [...]
Un uomo meno esperto di me si sarebbe consolato ragionando presso a poco così: i ragazzi non sono abituati allo sforzo lavorativo, non hanno «stile», non sanno lavorare, non hanno l'abitudine di mettersi al livello dello sforzo compiuto dai loro compagni, non esiste quell'orgoglio lavorativo che sempre contraddistingue il collettivista. Tutto ciò non può nascere in un giorno solo, ci vuole tempo. Purtroppo io non potevo consolarmi in questa maniera. Conoscevo la legge per cui nel fenomeno pedagogico non esistono nessi diretti e tanto meno sono possibili la formula sillogistica, il breve balzo deduttivo.
Nelle condizioni di Kuriag uno sviluppo graduale e lento dello sforzo lavorativo minacciava di creare uno stile generale di lavoro che si sarebbe espresso nelle forme più mediocri, e tale da liquidare lo stile preciso e rapido dei «gorkiani».
La «teoria» pedagogica ha sempre ignorato il campo dello stile e del tono, mentre si tratta della parte più sostanziale e importante dell'educazione collettiva. Lo stile è qualcosa di delicato e che si rovina presto. Bisogna averne cura, seguirlo giorno per giorno, coltivarlo con lo zelo col quale si coltivano i vivai. Lo stile si forma molto lentamente, perché non è ammissibile senza l'accumularsi di tradizioni, cioè disposizioni e di abitudini acquisite non dalla sola coscienza, ma dal rispetto cosciente per l'esperienza delle vecchie generazioni, per la grande autorità dell'intero collettivo, che vive nel tempo. Gli insuccessi di molti istituti per ragazzi dipendono dalla mancanza di uno stile, di abitudini e di tradizioni; le quali cose, anche se hanno cominciato a formarsi, vengono regolarmente distrutte dagli ispettori dell'Educazione popolare, del resto spinti a farlo da ragioni degne di ogni elogio. Grazie a ciò i «ragazzi» affidati agli istituti di educazione sociale hanno sempre vissuto senza neppure un'allusione a vere e proprie tradizioni, non soltanto «secolari», ma anche annuali.
L'aver conquistato la coscienza dei «kuriagiani» mi permetteva rapporti di maggiore confidenza con i ragazzi. Ma ciò non bastava. Per una vittoria completa dovevo mostrare ora le mie capacità tecniche di pedagogo. Nel campo di questa tecnica mi sentivo altrettanto solo come nel 1920, benché non fossi più così umoristicamente ignorante. Si trattava di una solitudine speciale. Sia tra gli istitutori che tra i ragazzi contavo ormai su numerosi aiutanti; disponendo di loro, potevo osare le più complicate operazioni. Ma tutto ciò esisteva soltanto sulla terra. Invece in cielo e vicino al cielo, sulle cime dell’ «Olimpo»1 pedagogico, qualsiasi tecnica pedagogica nel campo dell'educazione veniva considerata un'eresia.
In «cielo» il ragazzo veniva considerato come un essere pieno di un gas speciale al quale non si era ancora trovato il tempo di dare un nome preciso. Del resto, si trattava dell'anima di buona memoria, intorno alla quale si erano già esercitati gli apostoli. Si supponeva, quale ipotesi di lavoro, che questo gas avesse la capacità di autosvilupparsi, purché non lo si ostacolasse. A questo proposito si erano scritti numerosi libri, che in sostanza ripetevano senza eccezione le sentenze di Rousseau:
«Trattate l'infanzia con venerazione...».
«Non ostacolate la natura...».
Il dogma principale di questa fede consisteva nel fatto che, con tutto questo rispetto della natura, dal succitato gas doveva senz'altro nascere la personalità comunista. In realtà, in condizioni di pura natura, cresceva soltanto quel che naturalmente poteva crescere, cioè la solita gramigna, ma nessuno ne restava scosso, poiché gli abitatori del cielo avevano cari soltanto i principi e le idee. Le mie osservazioni a proposito della mancata corrispondenza tra tale vegetazione selvatica e la personalità comunista, prevista dal progetto, venivano definiti quale stretto praticismo e, per sottolineare la mia vera natura, taluno diceva: Makarenko è un buon pratico, ma è poco ferrato nella teoria.
Si parlava anche della disciplina. La base teorica in questo campo era costituita da due parole, che si incontrano spesso in Lenin: «Disciplina cosciente». Per qualsiasi persona di buonsenso queste parole contengono un pensiero semplice, comprensibile e praticamente necessario: la disciplina deve accompagnarsi alla comprensione della sua necessità, utilità, della sua importanza di classe. Nel campo della teoria pedagogica ciò suonava diversamente: la disciplina deve nascere non dall'esperienza sociale, non dall'azione pratica di un collettivo cameratesco, ma dalla pura coscienza, dalla nuda convinzione intellettuale, dal «vapore» dell'anima, dalle idee. Perciò i teorici, proseguendo nel loro cammino, decisero che la «disciplina cosciente» non serve a nulla se nasce in seguito all'influenza dell'educatore. In tal caso non si tratta più di una disciplina realmente cosciente, bensì, in sostanza, di una violenza esercitata sul «vapore» dell'anima. Non occorre una disciplina cosciente, ma un'«autodisciplina». Allo stesso modo non serve ed è pericolosa qualsiasi forma di organizzazione dei ragazzi, occorre invece l'«autorganizzazione».
Tornando nel mio buco di provincia, cominciavo a pensare. Riflettevo: noi tutti sappiamo benissimo qual è l'uomo che vogliamo ottenere, lo sa qualsiasi operaio cosciente, lo sa qualsiasi membro del partito. Di conseguenza la difficoltà non risiede nel problema dello scopo, bensì dei mezzi. Si sa quel che si deve fare, ma non si sa come lo si deve fare. Si tratta di un problema di tecnica pedagogica.
La tecnica la si impara soltanto mediante l'esperienza. Le leggi per il taglio dei metalli non si sarebbero trovate se nessuno si fosse messo a tagliare i metalli. Solo quando esiste un'esperienza tecnica, sono possibili le invenzioni, i perfezionamenti, la selezione.
La nostra produzione pedagogica non è mai stata costruita secondo un criterio tecnologico, bensì sempre secondo la logica della predicazione morale. Lo si nota soprattutto nel campo della vera e propria educazione, mentre il lavoro scolastico procede più facilmente.
Appunto perciò da noi mancano completamente tutti i reparti importanti di questa produzione: il processo tecnologico, il calcolo delle operazioni, il lavoro di costruzione, l'uso di mezzi conduttori e di apparecchiature, l'assegnazione delle «norme», il controllo, la selezione.
Quando io pronunciavo timidamente parole del genere alle pendici dell' «Olimpo», gli dei mi bersagliavano di mattoni gridando che si trattava di una teoria meccanica.
Invece io, quanto più ci pensavo, tanto più trovavo delle somiglianze tra i processi dell'educazione e i soliti processi della produzione materiale, convinto che non ci fosse nessuna particolare meccanicità in tale somiglianza. La personalità umana continuava a restare tale con tutte le sue complicazioni, la sua ricchezza e la sua bellezza, ma mi pareva che proprio per questo fosse necessario affrontarla con strumenti di misura più precisi, con maggior senso di responsabilità e maggior numero di cognizioni, e non con piagnistei isterici. La profondissima analogia tra la produzione e l'educazione non soltanto non offendeva la mia immagine dell'uomo, ma, al contrario, mi dava un rispetto tutto particolare per quest'uomo, poiché è impossibile non avere rispetto per una macchina buona e complicata.
Ad ogni modo per me era chiaro che molti particolari della personalità e della condotta umana si potevano formare mediante buone macchine pressatrici, ma per far ciò occorreva che queste macchine lavorassero in modo particolarmente preciso, occorrevano una prudenza ed una precisione veramente scrupolose. Altri particolari richiedevano, al contrario, una lavorazione individuale in mano a uno specialista altamente qualificato, a un uomo dalle mani d'oro e dallo sguardo acuto. Per molti particolari, poi, sono necessari metodi più complicati, che richiedono grande inventiva e notevole genialità. Ma per tutti i particolari e per tutto il lavoro dell'educatore occorre una scienza speciale. Perché negli istituti tecnici noi studiamo la resistenza dei materiali, mentre negli istituti pedagogici non studiamo la resistenza opposta dall'individuo quando lo si comincia ad educare? Pure tutti sanno che tale resistenza è un fatto reale. E perché finalmente, non esiste un reparto addetto al controllo, in grado di dire ai vari Soloni della pedagogia:
- Voi, miei cari, ci date il novanta per cento di scarto. L'individuo che educate non è comunista, ma una porcheriola qualsiasi, un ubriacone, un fannullone, un parassita. Abbiate la cortesia di pagarci i danni col vostro stipendio.
Perché non esiste da noi una scienza relativa alla materia prima e nessuno sa bene che cosa si debba fare col materiale: una scatola di fiammiferi oppure un aeroplano?
Dalle cime dell'«Olimpo» non si vedono i particolari del lavoro. Si vede soltanto il mare sconfinato dell'infanzia, mentre lassù si trova il modello di un ragazzo astratto, formato di materiali leggerissimi: idee, carta stampata, sogni. Quando i rappresentanti dell'«Olimpo» vengono a visitare la mia colonia, la loro vista non si schiarisce e un collettivo vivo di ragazzi non pare loro una circostanza nuova capace di dare prima di tutto delle preoccupazioni di carattere tecnico. Invece io, accompagnandoli attraverso la colonia, e già massacrato dalle conversazioni teoriche, non riesco a staccare lo sguardo da qualche piccolo particolare tecnico. [...]
Gli abitanti dell'«Olimpo» disprezzano la tecnica. Grazie alla loro dominazione, nei nostri istituti pedagogici il pensiero tecnico-pedagogico langue, soprattutto per quanto riguarda propriamente l'educazione. In tutta la nostra vita sovietica non esiste una situazione tecnica più arretrata di quella educativa. E perciò il lavoro educativo si svolge all'artigiana e anche tra i lavori all'artigiana è il più arretrato. Appunto perciò rimane tuttora valida la protesta di Lika Lukic Khlopov del «Revisore»2:
«Non vi è nulla di peggio che lavorare nel campo dell'insegnamento; tutti s'immischiano, tutti vogliono mostrare di essere anch'essi intelligenti».
E non si tratta di uno scherzo, di un'iperbole, bensì della più prosaica verità. Tutti credono di essere abbastanza intelligenti per risolvere qualsiasi problema dell'educazione. Basta che un uomo stia seduto dietro una scrivania ed ecco che già comincia a sentenziare, ad approvare e disapprovare. Con quale libro gli si può mettere un freno? A che serve il libro, se egli stesso è padre di un bambino? E intanto il nostro professore di pedagogia, specialista in problemi dell'educazione, manda un bigliettino al Commissariato:
«Il mio ragazzo mi ha derubato parecchie volte, non dorme in casa, vi scongiuro...».
Ma perché mai i poliziotti devono dimostrarsi dei tecnici più bravi degli stessi professori in pedagogia?
A questa interessantissima domanda non risposi subito e allora, nel 1926, non mi trovavo con la mia tecnica in una situazione migliore di quella di Galileo col suo tedesco-pio. Mi trovavo di fronte a un'alternativa: o una completa sconfitta a Kuriag, o una sconfitta sull'«Olimpo» e la cacciata dal paradiso. Scelsi il secondo corno del dilemma. [...]
Durante i primi giorni di Kuriag, nei reparti fu compiuto un lavoro veramente notevole. A ogni due o tre reparti da molto tempo era stato assegnato un istitutore. Gli istitutori dovevano suscitare nei reparti il senso dell'onore collettivo e della necessità di un futuro migliore, degno della colonia. Naturalmente, questi nobili sentimenti non nascevano dopo un giorno, però si manifestavano abbastanza presto, molto più presto che se avessimo lavorato per individui e non per reparti.
La nostra seconda istituzione molto importante era il sistema delle linee di prospettiva. Come è noto, esistono due vie nel campo dell'organizzazione della prospettiva e, di conseguenza, anche dello sforzo lavorativo. La prima via consiste nel formare una prospettiva individuale, influendo tra l'altro sugli interessi materiali dell'individuo. Questa via, del resto, veniva decisamente proibita dai Soloni pedagogici di allora. Quando si trattava perfino di pochi rubli, distribuiti ai ragazzi quale salario o premio, tutto l’«Olimpo» protestava scandalizzato. I nostri pedagoghi erano convinti che il denaro è merce del diavolo, non per nulla avevano letto nel Faust. «Gli uomini periscono per il metallo...».
Di fronte al salario e al denaro venivano presi dal panico e non era più possibile discutere con loro. Ci voleva un'aspersione di acqua santa, ma io non ero in grado di compiere simile operazione.
Eppure il salario è una cosa molto importante. Mediante il salario il colonista impara a coordinare gli interessi individuali con quelli sociali, cade nel complicato mare del piano finanziario industriale sovietico, del bilancio e del calcolo economico, entra in contatto con tutto il sistema dell'organizzazione industriale sovietica e si pone su posizioni di principio comuni a tutti gli altri operai. Infine impara ad apprezzare il guadagno e non lascia più la casa di correzione come un'educanda che non sa vivere e possiede soltanto degli «ideali».
Senonché non c'era nulla da fare, mi trovavo di fronte a un «tabù». Avevo la possibilità di seguire soltanto la seconda via, cioè il metodo che consiste nel migliorare il tono collettivo e organizzare il complicatissimo sistema della prospettiva collettiva. Qui c'era meno odore di zolfo e gli dèi sopportavano, pur brontolando di tanto in tanto con aria sospettosa.
L'uomo non può vivere se non vede davanti a sé nulla di piacevole. Il vero stimolo della vita umana è la gioia di domani e nella tecnica pedagogica tale gioia rappresenta uno dei più importanti strumenti di lavoro. Prima bisogna organizzare questa gioia, chiamarla alla vita e farne una realtà. In secondo luogo, bisogna trasformare insistentemente le forme più semplici della gioia in forme più complesse e umanamente importanti. Viene così tracciata una linea interessante: dalla soddisfazione primitiva per aver mangiato qualche dolciume fino al più profondo senso del dovere. Ciò che noi apprezziamo di più nell'uomo è la forza e la bellezza. Ambedue si formano nell'uomo esclusivamente in base al suo atteggiamento nei confronti della prospettiva. L'uomo che determina la sua condotta in base alla prospettiva più vicina, in base al pranzo d'oggi, proprio di oggi, è il più debole di tutti. Se egli si accontenta della sua sola prospettiva individuale, sia pure lontana, può apparire forte, ma non suscita in noi il senso della bellezza della personalità e del suo vero valore. Quanto è più ampio il collettivo alle cui prospettive l'uomo si informa, facendole proprie, tanto più egli ci appare bello ed elevato.
Educare l'uomo significa educare in lui le prospettive verso le quali si indirizzerà la sua gioia di domani. È possibile scrivere un'intera metodica su questo importante lavoro. Esso consiste nell'organizzare nuove prospettive e sfruttare quelle già esistenti, sostituendole gradualmente con altre di maggior valore. Si può incominciare anche da un buon pranzo e da una visita al circo o dalla pulizia dello stagno, ma bisogna sempre far nascere e sviluppare gradualmente le prospettive di un intero collettivo, portandole fino alle prospettive di tutta l'Unione.
La prospettiva collettiva più prossima dopo la conquista di Kuriag era costituita dalla festa del primo covone.
Ma io devo mettere in risalto una serata eccezionale, divenuta per caso una svolta decisiva nello sforzo lavorativo dei «kuriagiani». Io stesso non contavo su un tale risultato e avevo soltanto intenzione di provvedere ad una cosa che mi pareva indispensabile, ma nient'affatto per ragioni pratiche. I nuovi colonisti non sapevano chi fosse Gorki. Pochi giorni dopo l'arrivo organizzammo una serata in onore di Gorki. Si trattava di una cosa molto modesta. A bella posta non volli dare alla cosa il carattere di un concerto o di una serata letteraria. Non invitammo ospiti. Sulla scena mettemmo un ritratto di Aleksei Maksimovic.
Io parlai ai ragazzi della vita e della creazione di Gorki, ne parlai dettagliatamente. Alcuni dei ragazzi più anziani lessero dei brani dell'Infanzia.
I nuovi colonisti mi ascoltavano con gli occhi sgranati: essi non immaginavano che al mondo potessero esistere vite di quel genere. Non mi chiesero nulla e non si agitarono fino al momento in cui Lapot portò la cartella con le lettere che ci aveva scritte Gorki.
- E stato lui? Proprio lui? Lui stesso ha scritto ai colonisti? Fate vedere...
Lapot, tenendole con cura, portò in giro, spiegate, le lettere di Gorki. Qualcuno trattenne la mano di Lapot e cercò di penetrare più a fondo nel contenuto dell'avvenimento.
- Ecco, vedi... ecco, vedi: «Miei cari compagni». È scritto proprio così... Tutte le lettere furono lette durante quella riunione. Allora domandai:
- Forse qualcuno vuol dire qualche cosa?
Per un paio di minuti nessuno si fece avanti, ma poi, arrossendo, uscì sulla scena Korotkov e disse:
- Voglio dire ai nuovi «gorkiani»... a quelli che sono come me... Solo che non so parlare... Del resto, non importa. Ragazzi! Abbiamo vissuto qui e avevamo degli occhi, ma non abbiamo visto nulla... Come dei ciechi, parola d'onore. Peccato, aver perso tanti anni! Ed ecco che ora per averci solo mostrato questo Gorki... Parola d'onore, mi si è rimescolato tutto dentro... non so se anche per voi è così...
Korotkov si avvicinò all'orlo del palcoscenico, socchiuse leggermente i suoi begli occhi seri:
- Ragazzi, bisogna lavorare... Lavorare non come facciamo ora... Capito?
- Capito! - gridarono i ragazzi e applaudirono Korotkov che scendeva dal palcoscenico.
II giorno dopo non li riconobbi. Soffiando e gemendo per la fatica, dimenando la testa, cercavano onestamente di superare, sia pure con grande sforzo, l'eterna pigrizia umana. Avevano visto davanti a sé la prospettiva più bella: il valore della personalità umana.
Epilogo
Sono trascorsi sette anni. In generale tutto questo è accaduto molto tempo fa.
Ma anche ora ricordo bene, in tutti i suoi particolari, quel giorno, appena fu partito il treno che portava via Gorki. I nostri pensieri, i nostri sentimenti accompagnavano ancora il treno, gli occhi dei ragazzi brillavano ancora del calore dell'ultimo saluto, quando io mi trovai di fronte a una piccola, «semplice» operazione. I «gorkiani» e i «comunardi» erano schierati per tutta la lunghezza della banchina, risplendevano al sole le trombe delle due bande, le cime delle due bandiere. Sul binario vicino era già quasi pronto il treno per Rygiov. Giurbin mi si avvicinò:
- Posso far salire i «gorkiani»?
- Sì.
I colonisti e le loro trombe mi passarono accanto di corsa. Ed ecco anche la nostra vecchia bandiera di seta. Un minuto più tardi da tutti i finestrini del treno penzolarono mazzi di ragazzi e ragazze. Essi mi guardavano e gridavano:
- Anton Siemionovic, salite nel nostro vagone!
- Non venite con noi? Restate con i «comunardi»?
- Verrete da noi domani?
A quei tempi ero un uomo forte e risposi a tutti con un sorriso. Quando poi mi si avvicinò Giurbin, gli consegnai un foglio, nel quale stava scritto che in seguito alla concessione di una «licenza» al direttore, la colonia veniva affidata a Giurbin. Egli guardò il foglio con aria smarrita:
- Allora, è la fine?
- La fine, - dissi io.
- Però... - cominciò Giurbin, ma il fischio della locomotiva coprì le sue parole e Giurbin non disse nulla, ebbe un gesto rassegnato e se ne andò, guardando dalla parte opposta ai vagoni.
II treno per Rygiov si mosse. Le facce dei ragazzi mi sfilarono davanti, come a una festa. Essi mi gridavano «arrivederci» e per scherzo facevano l'atto di togliersi il berretto con due dita. All'ultimo finestrino si trovava Korotkov. Egli portò in silenzio la mano al berretto e mi sorrise.
Uscii sulla piazza. I «comunardi» mi attendevano schierati. Diedi un ordine e ci avviammo verso la comune, attraverso la città. Mai più misi piede a Kuriag.
Da allora sono trascorsi sette anni sovietici e si tratta di un periodo molto più lungo di sette anni per esempio zaristi. Durante questo periodo il nostro paese ha realizzato il primo piano quinquennale, gran parte del secondo, all'estero hanno imparato a rispettare la pianura orientale dell'Europa più che non durante trecento anni di dominazione zarista. Nel frattempo i nostri muscoli si sono molto irrobustiti, è cresciuta una «intelligenza» nostra.
Anche i miei «gorkiani» sono cresciuti, si sono dispersi per tutta l'Unione, e oggi mi riesce difficile radunarli tutti insieme anche solo nell'immaginazione. Difficile poter vedere l'ingegner Zadorov, nascosto in una delle grandi costruzioni del Turkmenistan, impossibile farsi visitare dal dottor Vierscniov, medico dell'Armata speciale dell'Estremo Oriente, o dal medico Burun, che esercita a Iaroslavl. Perfino Nissinov e Zoren, così piccolini, sono volati via, lontano da me, solo che le loro ali non sono più quelle tenere della mia simpatia pedagogica, ma le ali d'acciaio degli aeroplani sovietici. E anche Scelaputin non si sbagliava quando diceva che sarebbe diventato pilota; e pilota è pure diventato Sciurka Gevelii, non avendo voluto imitare il fratello maggiore, timoniere nell'Artico.
A suo tempo alcuni compagni, di passaggio nella colonia, mi chiedevano spesso:
- È vero che tra i ragazzi abbandonati si trovano molti talenti con tendenze creative?... Ditemi, avete degli scrittori e dei pittori?
Certo, avevamo degli scrittori e dei pittori, nessun collettivo riesce a tirare avanti senza gente del genere, senza di loro non si può avere neppure un giornale murale. Ma a questo punto devo riconoscere purtroppo che nessun «gorkiano» è diventato scrittore o pittore, e non per mancanza di talento, ma perché la vita li ha afferrati subito con le sue esigenze pratiche più immediate. [...]
1. Con tale termine il Makarenko si riferisce ai rappresentanti della pedagogia ufficiale sovietica del tempo che non condividevano le linee della sua pratica educativa nella colonia.
2. Personaggio dell'opera di F. Dostoevskij.
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