IL PERICOLOSO MESTIERE DEL FILOSOFO
e la storia di Ipazia
nel saggio di Luciano Canfora
Che il “mestiere” del filosofo fosse stato sempre difficile, è
luogo comune: lo stesso che ha dato al termine, nella modernità,
l’accezione negativa di filosofeggiare come arzigogolo mentale, come sterile
disputa teorica, come successione di inutili sofismi. Nel saggio di Luciano
Canfora (Un mestiere pericoloso – La vita quotidiana dei filosofi greci,
Sellerio, 2000), inutilmente si cercherebbe il trattato organico sul difficile
problema intellettuali/potere; esso rimane sullo sfondo, rinunciando, appunto,
al ‘filosofeggiare’ sterile, per documentare, al contrario, alcuni casi
celebri e meno dell’antichità greca: Socrate ovvero l’infallibilità
della maggioranza, la vita randagia del cavaliere Senofonte, Platone e
la riforma della politica, Aristotele uno e due, il senso degli atomi di
Epicuro e del suo esegeta massimo Lucrezio, e infine la storia di Ipazia,
assassinata dall’intolleranza, una delle figure femminili (carenti) dell’universo
filolosofico nella storia.
La parabola del destino del filosofo è inscritta comunque
nella sua disorganicità rispetto alle classi dominanti: l’esercizio
critico del pensiero, in quanto tale, diventa un serio pericolo comunque
per i detentori del potere politico e culturale. Il sogno di Platone è,
ad esempio, superare questa dualità tragica: non un’utopia, dunque,
ma una necessità storica che si infrange sugli scogli della mediocrità
del vivere dei potenti o di coloro che si ritagliano una qualche fetta
di potere, contro la cui caducità effimera si scaglia Epicuro e
il "De rerum natura" di Lucrezio. Lo stesso Aristotele, che giganteggia
oggi quale emblema della potenza ermeneutica dell’Occidente speculativo,
emblema conquistato trasformando la sua filosofia in una tavola della legge
e sposata alle verità di fede, vede le sue opere manipolate, dimenticate
e poi ricuperate, sempre sacrificate, a fatica, sull’altare dei potenti.
E infine Ipazia, neoplatonica alessandrina, figlia del matematico Teone,
uccisa nel 415. Ipazia rimase vittima di un gruppo di fanatici cristiani,
che la pensavano responsabile delle difficoltà che il prefetto faceva
al vescovo Cirillo. Fu Damascio, filosofo neoplatonico (480/prima metà
del sec.VI a.C.), quinto successore di Proclo nello scolarcato dell’Accademia,
che per primo, nella Vita di Isidoro, incolpò Cirillo del
delitto. Degli scritti di Ipazia, nulla ci è rimasto (la Suda
ci
ha conservato i titoli di tre opere matematiche, anche se il suo interesse
speculativo si rivolse soprattutto agli studi filosofici), ma la sua figura
può essere presa a simbolo della filosofia in quanto tale. Per cui,
anche oggi che la filosofia è hegelianamente (e mestamente) solo
la sua storia riflessa nel pensiero, rimane come la madre di ogni libertà:
da quella speculativa, a quella concreta della vita, che troppo spesso
ci volge a piegare l’esercizio del pensiero all’opportunità contestuale
e storica. Un grande interrogativo anche per la pedagogia e le scienze
della formazione: per riecheggiare Jerome Bruner, quanta riproduzione-conservazione
e produzione-autonomia nel compito educativo?
(su questi temi, vedi anche Metodo come
liberazione e creatività, 1997)
da Luciano Canfora: Un mestiere
pericoloso– La vita quotidiana dei filosofi greci, Sellerio, 2000,
pp.196/203
(sono state espunte le note per comodità di lettura)
L'occulto incitamento
ad agire consistette nel lasciare intendere che Ipazia, col suo prestigio
presso Oreste, costituisse l'unico impedimento alla riconciliazione tra
il vescovo e il prefetto. Di lì il passo successivo era breve: eliminare
quell'ostacolo. Non mancavano certo, e Cirillo ben lo sapeva, fanatici
protesi all'azione, zelanti interpreti di una volontà che non altro
desiderava che essere interpretata e tradotta in pratica.
Alla porta dell'accademia
dove Ipazia insegnava si affollavano scolari e curiosi, ma Ipazia, avvolta
nel mantello dei filosofi - una sorta di «divisa» che fu già
propria delle allieve dirette di Platone - attraversava impavida la città,
inquietante e turbolenta, per insegnare in pubblico il pensiero dei filosofi
greci: non solo Platone, né solo Euclide o Tolomeo, ma anche ogni
altra dottrina filosofica greca. Racconta Damascio - il quale visse un
secolo più tardi e fece a tempo a subire la persecuzione antifilosofica
di Giustiniano - che Ipazia «con indosso il mantello filosofico faceva
le sue uscite nella città e spiegava pubblicamente, a chiunque voleva
ascoltarla, Platone o Aristotele o le opere di qual siasi altro filosofo».
Fu durante una di queste
sortite che la aggredirono. In un giorno di «Quaresima» dell'anno
415, i monaci della Nitria, guidati da un lettore di nome Pietro, si appostarono
lungo il percorso che consuetamente compiva la carrozza di Ipazia. La assaltarono
mentre faceva ritorno a casa. «Tiratala giù dal carro - narra
una fonte ecclesiastica contemporanea - la trascinarono fino alla chiesa
che prendeva il nome da Cesario. Qui la denudarono e la massacrarono a
colpi di tegole, quindi la tagliarono a pezzi e ne bruciarono i miserabili
resti». Damascio aggiunge che le avevano cavato gli occhi
dalle orbite mentre era ancora viva.
La scena è quella
di un sacrificio umano compiuto per il dio dei Cristiani in una sua chiesa.
Il crimine - commenta
Socrate Scolastico - «recò infamia sia a Cirillo che alla
chiesa di Alessandria».
Si coglie bene, grazie
a queste parole, che lo storico ecclesiastico non nutre particolare simpatia
per il feroce vescovo, ma non osa coinvolgerlo direttamente e personalmente
come mandante. Torneremo su questo passo. Damascio, invece, nell'ampio
resoconto che dedica ad Ipazia nella Vita di Isidoro, è esplicito
sulle
colpe di Cirillo: «Cirillo
si rose a tal punto nell'animo che tramò l'uccisione di lei in modo
che avvenisse al più presto ». Per Damascio non vi è
dubbio che fu lui, definito «capo della setta opposta», a dare
l'ordine dell'assassinio. Per il moderno critico è imbarazzante
dover scegliere tra una fonte coeva ma reticente ed una fonte molto esplicita,
certo molto critica, ma successiva di oltre un secolo ai fatti narrati.
È dovuto forse
ad un favorevole capriccio della sorte, o piuttosto alla spregiudicata
curiosità intellettuale del Patriarca Fozio, il fatto che ci sia
in piccola parte conservato un terzo racconto di quella tragica vicenda.
Si tratta di un estratto dalla Storia ecclesiastica dell'ariano
Filostorgio, nato circa il 368 d.C. e dunque
contemporaneo dei fatti
narrati (e forse addirittura testimone diretto, ad Alessandria, di quell'eccidio).
L'opera di Filostorgio, in quanto ariano, fu perseguitata, e questo favorì
la sua scomparsa. Ma Fozio, nel IX secolo, ne rintracciò un esemplare
e lo fece oggetto, pur prendendone teologiche e prudenziali distanze, delle
letture collettive da lui regolarmente condotte (anche dopo la assunzione
del Patriarcato) coi suoi allievi: letture di cui egli dà conto
in modo alquanto caotico nella cosiddetta Biblioteca.
Fozio
ebbe un così profondo interesse per Filostorgio da lasciare non
solo una sintesi della Storia ecclesiastica di lui nella Biblioteca
(capitolo
40), ma anche una massa enorme di estratti: i quali si sono salvati in
alcuni manoscritti, recanti tuttora l'interessante intitolazione «Dalle
lezioni di Fozio», o meglio «Dalla viva voce di Fozio».
Uno di questi estratti è tutto dedicato ad Ipazia. E merito dunque
di Fozio aver trascelto quel passo. Orbene Filostorgio, il quale ebbe anche
interessi scientifici, sembra che abbia ascoltato direttamente l'insegnamento
di Ipazia e di Teone. Colpisce infatti la precisione con cui afferma che
la figlia era divenuta, in campo astronomico, «molto più brava
del padre». Qui Fozio abbrevia la sua fonte, e riassume tutto il
resto con una semplice frase:
«L'empio a questo
punto dice che, al tempo del regno di Teodosio II, quella donna
fu fatta a pezzi dai sostenitori della consustanzialità».
Oggi questo modo di
parlare ci fa sorridere, ma ai fini della comprensione di questa storia
può risultare prezioso. Qui infatti Fozio, mentre parafrasa la sua
fonte, ne riprende anche le parole più importanti. Di
sicuro è Filostorgio
che deve aver scritto «i sostenitori della consustanzialità»,
intendendo riferirsi, in tono sprezzante, agli "ortodossi" atanasiani,
ormai vincitori e "padroni" incontrastati dell'ortodossia. Come
sappiamo, Atanasio, ad Alessandria, era, come ferreo assertore della «consustanzialità»,
un personaggio simbolo: dire perciò, in riferimento a quell'assassinio
commesso appunto ad Alessandria dai seguaci di Cirillo, che lo avevano
commesso i sostenitori della «consustanzialità»
era particolarmente sferzante. Ovvio che Fozio, se parlasse in proprio,
non si esprimerebbe così, ma, appunto, sta riferendo quanto legge
in Filostorgio, segnalando al più con l'epiteto «l'empio»
la propria presa di distanze. E' importante però che ci dia quella
esatta informazione: per Filostorgio, dunque, l'assassinio non era opera
di una amorfa folla fanatica, era opera di quel clero che, ad Alessandria
in modo particolare, spadroneggiava. L'espressione «i sostenitori
della consustanzialità» non può riferirsi a generici
assassini invasati, ma colpisce la gerarchia, quella gerarchia atanasiana
(e perciò da Filostorgio detestata) che ad Alessandria aveva il
suo epicentro ed il suo punto di forza. Filostorgio intende dunque denunziare
non già un doloroso episodio di fanatismo, ma un crimine dei suoi
avversari e persecutori. Quanto pregnante ed intenzionale sia il suo modo
di parlare si comprende raffrontando le sue parole con quelle del lessicografo
Suida, il quale, narrando di Ipazia, dice che «fu fatta a pezzi dagli
Alessandrini»,
e precisa che solo secondo alcuni l'istigatore
era stato Cirillo. Tra questi «alcuni» c' era Filostorgio,
testimone diretto di quella vicenda.
Socrate Scolastico è più sottile. Non dice che Cirillo istigò al delitto, dice che a lui «venne biasimo» a causa di quell'efferato episodio. E spiega così: «perché stragi, battaglie e simili sono estranee a coloro che si ispirano a Cristo». Parole dosate e ambigue, tanto più da apprezzarsi se si considera l'autorità dottrinale, per la dommatica cattolica, di Cirillo, l'inventore della Theotòkos.
Le parole di Socrate
possono in verità significare due cose: che Cirillo non seppe essere
un buon pastore
visto che sotto il
suo governo ci fu continua violenza (e probabilmente Socrate vorrebbe dir
questo), ma
possono anche significare
(in senso benevolo) che, visto il prodursi di tante violenze al tempo in
cui Cirillo era vescovo, tutto questo non poté che riverberarsi
negativamente anche su di lui (incolpevole).
Molto più esplicito
il cronista antiocheno Giovanni Malala, il quale scrive al tempo di Giustiniano.
Il suo "localpatriottismo" antiocheno è forse provocato dal favo
re che TeodosioII manifestò verso Alessandria: favore documentato,
secondo Giovanni, anche dalla costruzione della «grande chiesa di
Alessandria, tuttora detta di Teodosio». Teodosio -
così si esprime nella consueta semplicità il cronista - «amava
Cirillo». E la prova della subalterità dell'imperatore (cioè
della sua occhiuta tutrice, Pulcheria) verso il potente vescovo tutore
dell'ortodossia è per lui la seguente: «In quella occasione
gli Alessandrini,
autorizzati ad agire dal vescovo, di propria mano
gettarono ad ardere nel fuoco Ipazia, la celebre filosofa della quale si
tramandano grandi cose».
Sembra chiaro che Malala stabilisce un nesso - ma non chiarisce quale - tra l'affetto di Pulcheria (e Teodosio II) per Cirillo e la liquidazione di Ipazia. La spiegazione di questo nesso la ricaviamo da Damascio: ci fu un tentativo di inchiesta, evidentemente su iniziativa del prefetto Oreste, ma l'inchiesta fu insabbiata. Anche in questo caso ci restano frammenti di informazione: non solo perché anche Damascio, oltre Filostorgio, ci è noto dagli estratti che ne fecero Suida e, ancora una volta, Fozio (altrimenti la Vita di Isidoro, dove tanto si parla di Ipazia non l'avremmo affatto), ma soprattutto perché la fonte giuntaci integra, cioè il prudente Socrate Scolastico, di questa inchiesta non parla affatto, o forse la adombra ancora una volta dietro la criptica espressione che abbiamo prima ricordato.
Sono poche parole di
Damascio, salvate da Suida, ad illuminarci. Scrisse Damascio: «Questo
crimine portò vergogna alla città [è la stessa espressione
di Socrate!], e l'imperatore si sarebbe indignato per l'accaduto se Edesio
non si fosse lasciato corrompere».
Parole tanto ellittiche
che hanno indotto taluno a pensare - ma è ipotesi oziosa - ad una
lacuna. La spie- gazione possibile è solo una: Oreste
chiese un'inchiesta; Costantinopoli non poté non concederla, e mandò
ad Alessandria un tale Edesio, il quale non fece nulla perché si
lasciò corrompere, evidentemente da quella medesima autorità
(il vescovo) che aveva avallato, e forse auspicato, l'assassinio.
A Damascio la vita andò meglio. Quando era ormai vecchio e viveva e operava ad Atene con gli altri neo platonici, Giustiniano chiuse la scuola platonica (529 d.C.) e cacciò lui e gli altri. Essi fuggirono in Persia presso Chosroe I, il quale era curioso di filosofia ed ottenne, per Damascio, il diritto a rientrare nel territorio dell'impero e la garanzia di liberamente professare il platonismo (531). Questo diritto fu addirittura sancito nel trattato di pace tra Giustiniano e Chosroe. E' degno di nota come, al crepuscolo ormai del pensiero greco, la libertà di filosofare venisse garantita ai Greci, contro il loro cristianissimo imperatore, dall'ultimo grande sovrano persiano, della dinastia dei Sassanidi.
I percorsi della libertà
sono i più vari, e lo Spirito non spira dove vuole ma dove può.
Certo per Giusti- niano quella fu una gran concessione se si pensa che,
sotto di lui, libri e opere d'arte dei Greci venivano, per fanatica adesione
al cristianesimo, bruciati e fatti a pezzi e gettati nel Cinegio «come
condannati a morte».
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