DEMOSTENE: L' ORAZIONE "PER LA PACE"
versione, introduzione e note di Luigi Annibaletto, dall'edizione Signorelli di Milano del 1948
INTRODUZIONE
Con l'orazione " Per la pace ", pronunciata nel 346 av. Cr., Demostene (384/322 a.c.,ndc) compì uno sconsolante, ma imprescindibile dovere politico. Non è degno di un animo veramente grande lasciarsi trascinare da inopportuni entusiasmi o sedurre dalle impressioni del momento e, se le circostanze non permettono di sperare qualche cosa di utile per lo Stato, è saggezza politica rinunciare ai sogni, anche se da anni vagheggiati, lasciare la via con passione battuta se porta alla rovina, voltare le spalle al favore popolare, se il bene del popolo lo esige. Questo egli non esitò a fare, quando comprese che la guerra non avrebbe portato che l'asservimento della sua patria. Da oltre cinque anni l'oratore aveva incitato il popolo Ateniese a scuotersi dal suo torpore, a portar guerra a Filippo, ad oltranza, con ogni mezzo, in ogni luogo.
Con la chiaroveggenza propria dei grandi, egli aveva previsto molto da lontano l'avvicinarsi, implacabile e irresistibile, come una vendetta del destino, dell' uomo che avrebbe soffocato l'ultimo anelito di libertà
nella Grecia. Quando ancora il Macedone cercava uno sbocco al mare con Anfipoli e
Potidea, e, lentamente, ma di continuo, allargava la sua potenza in Tracia e in Tessaglia, Demostene solo ebbe chiara la sensazione che si trattava, non di una città da aiutare o da abbandonare; ma dell'integrità del paese
stesso, che il barbaro di Macedonia, dotto nelle arti greche, minacciava. Di qui sorse
e grandeggiò l'ideale della difesa della libertà, che tutta informò la vita e la lotta del grande Ateniese. Preoccupato dell'indolenza e della cecità con cui
i suoi concittadini sembravano accogliere i progressi continui di Filippo, non trascurò occasione per aprire loro gli occhi, e quando il re, divenuto padrone della Tessaglia
(352) pensò di poter penetrare in Grecia per decidere la guerra sacra con le sue armi, Demostene fece sentire la sua voce, e la Grecia in armi si
trovò ad ostacolar il barbaro alle Termopili, non permettendogli per il momento di calpestare le tombe dei prodi di Leonida. Le mire
del Macedone si rivolsero quindi di nuovo alla Tracia; ma quando, per avere le miniere d'argento senza contrasti, vuole abbattere Olinto e la sua potente Confederazione,
è ancora Demostene che risveglia il popolo alla guerra. Con le sue tre appassionate "olintiache" cerca di persuadere
il popolo alla concordia contro il comune nemico, a sottostare di buon grado ai sacrifici necessari perché la patria sia difesa, a preferire gli armamenti e le triremi ai pubblici
spettacoli. La indecisione del partito al potere e l'eterna opposizione fra dovere e piacere fecero sì che gli aiuti in
un primo e secondo tempo fossero troppo esigui e poco decisivi; la terza spedizione fu ostacolata dai venti e resa inutile dal tradimento:
i comandanti della cavalleria di Olinto apersero le porte al nemico e la città fu rasa al suolo (348).....
-La fine di Olinto parve scuotere profondamente gli Ateniesi, quelli di buon senso almeno; si cominciò a pensare seriamente alla difesa; un po' del sacro fuoco di Demostene penetrò fra il popolo e qualche provvedimento fu preso. Troppo tardi! il
partito filomacedone di Filocrate fece balenare agli occhi degli Ateniesi i vantaggi chimerici di una pace che avrebbe loro permesso di non perdere i sonni, e s'iniziarono le trattative. Come sempre, il più astuto seppe trar vantaggio da
tutti gli eventi e dall'indugio stesso del giuramento: favorito dalla colpevole lentezza degli ambasciatori, giunse ad occupare numerose posizioni in Tracia, di cui, secondo i patti della pace,
gli si dovette riconoscere il possesso. Non si può certo immaginare l'animo di Demostene, entusiasta per una pace indecorosa; ma fu sopraffatto dagli avvenimenti e si ebbe quindi la pace di Filocrate (346).
Gli oratori prezzolati cercarono di trascinare il popolo a valutare esageratamente i vantaggi della pace.
Demostene invece tacque, non acconsentì ad illudere i suoi concittadini con il miraggio di vantaggi che non esistevano.
Intanto Filippo avanzava. Le Termopili furono valicate senza colpo ferire, i Focesi desistettero dall'impari lotta e
furono radiati dal numero dei Greci. Lo straniero s'impadronì dei loro seggi nel consiglio anfizionico e indisse i pubblici giochi. Era troppo! Gli Ateniesi non potevano tollerare simile impudenza; non si doveva accettare e riconoscere a Filippo tale diritto sacro, e in primo luogo non si doveva partecipare ai giochi in segno di
protesta. Filippo risentito ricorse alle minacce, il popolo esacerbato chiese la guerra, e, forse, aspettò da Demostene il grido di rivolta e di
incitamento come sempre. Ma ormai le circostanze erano cambiate: a Filippo tutti i Greci si erano inchinati e c'
era pericolo di averli
tutti contro, mentre Atene non avrebbe potuto sostenerne l'urto: gli spiriti non erano convinti, le finanze erano esaurite, mancavano le riserve. E Demostene s'alzò col cuore pieno di tristezza per consigliare la sottomissione e la pace, non già perché fosse vantaggiosa
; ma perché la guerra sarebbe stata
più dannosa.
Tale consiglio è tanto lontano dalle sue abitudini che egli stesso nel suo discorso, pur contro voglia, deve chiamare a testimonianza della sua chiaroveggenza politica i fatti precedenti, perché tutti capiscano che il suo atteggiamento è l'unico che si possa assumere in tale circostanza. Ma quale amara requisitoria contro l'indolenza dei suoi concittadini che ad una ad una si erano lasciate sfuggire tutte le occasioni propizie, per ridursi a gridar "guerra" quando questa avrebbe portato alla rovina! D'altra parte il suo ragionamento era
stringente e non ammetteva replica: gli Ateniesi avevano voluta ad ogni costo la
pace quando il nemico calpestava tutti i loro diritti e potevano contare
sull'aiuto dei Greci; perchè ora volevano una guerra, che non poteva che esser
disastrosa, per difendere un privilegio che era soltanto l'ombra di un diritto?
E il popolo ritornò ai sogni pacifici e comodi della vita di ogni giorno.
L' ORAZIONE "PER LA PACE"
(stralci)
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Il fatto di poter prevedere chiaramente tutto ciò meglio degli altri, non l'attribuirò, o Ateniesi, a una mia speciale abilità e non me ne farò un vanto; ma riconoscerò che io ho la cognizione esatta e il presentimento delle cose, solo per queste due ragioni che vi
indicherò:
prima di tutto per la mia buona fortuna, e vedo che essa domina su tutta l'abilità e la saggezza degli uomini;
in secondo luogo, perché io considero gli
avvenimenti e li giudico senza riguardo agli interessi personali; e nessuno certo potrà provare che io abbia fatto anche il più piccolo guadagno in relazione con la mia attività di uomo politico e di oratore. Il pubblico bene quindi mi si presenta esattamente, proprio come risulta dagli avvenimenti.
Quando invece su uno dei due piatti di una bilancia, si ponga del denaro, questo fa inclinare la bilancia dalla sua parte e trascina con sé il giudizio, e chi ha ricevuto del danaro non può più ragionare rettamente e sanamente su alcuna cosa.
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Voi troverete dunque che, in vista di interessi particolari, ciascuno fu indotto a fare molte cose che non avrebbe voluto fare. Ed è questo precisamente che noi dobbiamo evitare, poiché è proprio qui il vero pericolo.«E, per timore di questo, dirà qualcuno, dobbiamo dunque noi fare quanto gli altri ci impongono? E proprio tu ci dai di questi consigli?» No, davvero; e ne sono bene lontano. Ma io ritengo necessario comportarsi in modo da non compiere nulla che sia indegno di noi, da non provocare una guerra e dare a tutti l'impressione che noi ragioniamo saggiamente e diciamo sempre la verità. A coloro poi che pensano sia necessario esporsi con audacia ad ogni pericolo e non prevedono la guerra, voglio fare queste considerazioni (..) poiché, non v'ha dubbio, riteniamo che la tranquillità che nasce dalla pace ci procuri maggiori beni che non la lotta continua.
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