La controriforma dei cicli come antipedagogia
Si vuol rendere la scuola pubblica un’azienda senza scuola, ispirata ad una logica monodirezionale, il mercato e suoi bisogni e non i bisogni del soggetto in età evolutiva
La cosiddetta riforma dei
cicli scolastici (cosiddetta perché potrebbe configurarsi come vera
e propria controriforma), dovrebbe essere varata, secondo le dichiarazioni
del Ministro della P.I. De Mauro, dal 1 settembre 2001. Una data ravvicinata
dunque: eppure i docenti, che ancora al momento e per fortuna, sono il
cuore pulsante e attivo dell’istituzione scolastica pubblica (in quanto
a quella privata, ci sembra che il cuore ne sia il profitto, e non quello
scolastico), non sanno ancora a chi insegneranno (solo agli allievi della
prima o anche della seconda?), né dove (in quali plessi) né
cosa, mancando ancora i curricoli ed i programmi e né con quale
orario e inquadramento.
E allora, una prima notazione
di metodo: quando una riforma viene varata, sin dal suo concepimento, essa
deve veder coinvolti in prima persona proprio gli attori protagonisti che
debbono farla camminare; altrimenti, anche una buona riforma, rimarrebbe
carta straccia, burocratica e largamente inapplicata. Questa poi, sembra
non una buona riforma, ma una controriforma, con un sostanziale
salto all’indietro in una modalità rivestita da presunta innovazione
pedagogica. E proprio quest’ultimo punto, a me sembra particolarmente critico:
c’è una sorta di difficoltà, quasi una soggezione psicologica,
a parlar male di ciò che dovrebbe essere considerato ‘il nuovo che
avanza’, le nuove frontiere dell’educazione, le tecnologie didattiche al
servizio di un apprendimento più ricco, rapido e multiforme. Ma
appena si tenta di connettere la modalità concreta con cui questa
‘riforma dei cicli’ avverrà, e le elaborazioni pedagogiche che dovrebbero
supportarla, si scopre non una multiformità, ma una monodirezionalità:
un apprendimento forse sì più rapido, e non sappiamo quanto
giusto dal punto di vista formativo, ma di certo meno ricco e, soprattutto,
unidirezionale.
I due punti dirimenti, infatti,
di quella modalità, sono:
1. la cancellazione di un anno
di scuola di base, che passa da 8 a 7 anni;
2. la precoce scelta, che si
abbassa ai 12 anni, del proprio destino scolastico, con un punto di fuga
verso l’apprendistato, una sorta di genuflessione al mercato selvaggio
del lavoro che ha bisogno, come si sa, di manualità flessibile e,
soprattutto, molto giovane. Infatti, i ragazzi che decideranno di
non continuare la scuola dopo i 15 anni potranno adempiere a questo "obbligo"
anche al di fuori della scuola, andando a lavorare gratuitamente o con
contratti diversi da quelli nazionali, attraverso l'apprendistato, con
forme di sottopagamento e sfruttamento che potrebbero essere, e il più
delle volte lo sono, illegali. Con la scusa della formazione, si concede
alle industrie della manodopera a costi ridotti, mettendo i ragazzi in
concorrenza con i lavoratori adulti, per sfruttarli e liquidarli al termine
dell'"obbligo".
Come sia possibile collegare
tutto questo, e in particolare i due punti summenzionati, con un apprendimento
più ricco, articolato e multiforme, che dia priorità alla
maturazione di linguaggi formali-astratti di base nell’età puberale
e preadolescenziale, come recitano le teorizzazioni pedagogiche a supporto
della ‘riforma’, rimane un mistero. O, meglio, non lo è; ma, comunque,
sforziamoci di rimanere in quest’ottica: forse confidando ancora una volta
nell’abilità dei nostri docenti, maestri-docenti e professori-maestri
(chissà, forse anche la parola maestro rischia di scomparire come
reperto antico a favore magari di modernissimi neologismi ultranuovisti,
ad es.: operatori della mente, guide di abilità ecc..); i quali
però, pur bravi (e in tutti questi anni lo sono stati per davvero),
non possono proprio forzare le tappe dell’età evolutiva. Perché
se questo si configurasse, e si configura nell’impianto concreto della
‘riforma’, non di pedagogia si tratterebbe, ma di anti-pedagogia. Anti-pedagogia,
che è anche un termine utilizzato da un maestro della didattica
in Italia quale Francesco De Bartolomeis, ma in tutt’altro significato
da quello che qui ho voluto evidenziare. Non preoccupazione per la trasmissione
di valori culturali e sociali dominanti senza pluralismo critico, a cui
contrapporre, appunto, un’anti-pedagogia.
[Cfr. Francesco De Bartolomeis:
La ricerca come antipedagogia, Feltrinelli, 1969]
Esattamente il contrario: qui
si vuol rendere la scuola pubblica un’azienda senza scuola, ispirata
ad una logica monodirezionale, il mercato e suoi bisogni e non i bisogni
del soggetto in età evolutiva, il profitto economico come volàno
dello sviluppo, ma non dello sviluppo intellettivo, cognitivo e pratico
degli allievi, ma dello sviluppo delle imprese. Trasformare la scuola pubblica
in una fabbrica, ma non di menti critiche e capaci di destrutturare la
realtà che ci circonda per decodificarla secondo propria autonomia
e creatività, ma di corpi da offrire alla flessibilità e
mobilità senza diritti, oppure di tecnici altamente specializzati
nella produzione virtuale di merci, prodotti e ricchezza speculativa. E
anche qui: la speculazione di cui si parla è ben altra da quella
filosofica.
· Equivoco pedagogico: flessibilità dei metodi o delle persone?
Perché essere contrari
all'abolizione del gruppo classe e ai "gruppi flessibili", una delle caratteristiche
della controriforma?
Il bambino ha bisogno
di riferimenti certi non solo per quello che riguarda il rapporto con gli
insegnanti, ma anche con i compagni, con le amicizie che si crea. Gli equilibri
che si formano all'interno di una classe sono la base per la sicurezza
e la crescita del bambino. Il bambino e il ragazzo delle medie non sono
degli adulti che possono scegliere quale corso frequentare, con l'obiettivo
cosciente di imparare.
L'apprendimento di un bambino
o di un ragazzo delle medie è influenzato da molti fattori, tra
i quali il fatto di appartenere a una classe, avere amici con cui costruire
relazioni stabili, confrontarsi con gli altri. C'è poi il ruolo
dell'insegnante: se non c'è una classe precisa, come fa a controllare
questi processi, cioè l'equilibrio psicofisico dell'alunno? Se si
abolisce la classe si arriverà ad avere insegnanti che entrano ed
escono da un'aula, fanno una lezione e abbandonano i bambini ai loro problemi:
chi ha capito, bene, per gli altri fa lo stesso. Quella dei gruppi flessibili
è la scuola dei più forti, dei più dotati, dei più
ricchi. Per gli altri c'è l'abbandono.
Il concetto di flessibilità
ha sempre assunto, nel linguaggio corrente, accezione positiva: ecco perché
viene utilizzato dai poteri forti dell’economia; un’appropriazione linguistica
positiva per un significato negativo. Una contrapposizione semantico-semiologica,
dunque: significante positivo-significato negativo.
La metodologia della didattica
ha sempre assunto, almeno da Ralph Tyler in poi, e in Italia proprio dal
primissimo De Bartolomeis, [Cfr. R.Tyler: Basic principles of curriculum
and Instruction, Chicago, Un.Press, 1949 e F.De Bartolomeis: I metodi
nella pedagogia contemporanea , Gianasso, 1958]
la flessibilità dei
metodi come caratteristica della pianificazione dell’intervento educativo:
ancor prima della centralizzazione del feed-back come sistema autoregolativo
della stessa procedura pedagogica e valutazione formativa, la disponibilità
al mutamento e l’apertura all’innovazione si incardinavano nella filosofia
della ri-centralizzazione dell’allievo, i suoi bisogni e i suoi specifici
stili cognitivi, sulla funzionalità coattiva dell’insegnamento.
Contro il formalismo, la visione dialettica destrutturante l’alienazione:
perché?; perché il pensiero è scissione, rottura,
conflittualità, frutto di dialogo e discussione critica , per questo,
autentica riflessione conoscitiva. E' un destino di 'sofferenza e dolore',
che richiede sforzo costante, impegno, assiduità, metodo, 'dolore
della conoscenza', come già rilevava Giordano Bruno, secondo il
quale "chi acquista sapere, acquista conoscenza". Dunque produce crisi,
ma crisi produttiva, creativa. Il pensare costa fatica, deve rimuovere
certezze, sicurezze apparenti, forti sedimentazioni. Deve collocarci in
una condizione di ricerca aperta, precaria, problematica, mai garantita
da articoli di fede autoritativi: un'educazione che non tiene conto delle
condizioni del contesto in cui viene applicata è nulla, per il fatto
stesso di essere isolata dalla realtà ed inoltre perché può
diventare uno strumento sempre meno utile. Era Paul Freire che affermava
che la massima aspirazione dell'educazione "depositaria" (termine che sottintende
l'insegnamento nozionistico) è "parlare della realtà come
qualcosa di fermo, statico, suddiviso e disciplinato, o addirittura dissertare
su argomenti completamente estranei all'esperienza esistenziale degli
educandi".
[Cfr. P.Freire: La pedagogia
degli oppressi, Mondadori, 1971, pag.81]
Essa non svela le ragioni che
fanno dell'uomo un essere in divenire nel mondo, per cui ne inibisce la
creatività, preparandolo ad adattarsi alla realtà di fatto.
"La liberazione - scrive ancora Freire - è un parto. Un parto
doloroso. L'uomo che nasce da questo parto è un uomo nuovo che diviene
tale attraverso il superamento della contraddizione oppressori-oppressi,
che è poi l'umanizzazione di tutti".
[Ivi, pag.54]
Naturalmente lo sforzo cognitivo,
a cui ogni strategia didattica volta all'autoapprendimento (=autonomia
dell'apprendimento/scoperta apprenditiva nella propria struttura) deve
riferirsi, è in rapporto con la spinta motivazionale propria di
ogni soggetto e che ogni soggetto matura in tempi non preordinati. Quello
che si definisce 'disponibilità all'apprendimento', non è
un dono, ma il risultato di rinforzi appropriati. Il successo dello sforzo
cognitivo, porta alla ripetizione della catena di eventi che ha condotto
al risultato positivo. Una strategia didattica finalizzata all'insegnamento
individuale e non individualizzato, non risolve le aporie, contraddizioni
e lacune presenti nel rapporto tra nuovo materiale da apprendere e propria
struttura cognitiva, proprio stile cognitivo.
[Su questi temi vedi anche
F.Dubla: Il metodo come creatività
e liberazione – Sul rapporto tra strategie didattiche e processi cognitivi,
Taranto, 1997]
Ma cosa ha a che vedere questo
con la flessibilità delle persone? Non con la flessibilità
mentale, si badi, di quella s’è già evidenziata prima l’importanza
pedagogica, ma la mobilità selvaggia al servizio delle imprese.
Che sfidano la didattica con un paradosso contraddittorio per niente dialettico
perché irrisolvibile: l’alta e rapida specializzazione e la riconversione
altrettanto rapida alla dequalificazione meccanica. E così, da una
parte si richiede al mondo della scuola di preparare al lavoro, naturalmente
alle esigenze strettamente contingenti delle aziende, riducendo al minimo
o addirittura cassando una forte e dialettica preparazione di base, che,
come si sa, comprende anche discipline senza un ritorno immediato in termini
di competenze tecniche; dall’altra, senza quella preparazione, anche la
mobilità selvaggia, alias la flessibilità senza diritti delle
persone, lavoratrici e lavoratori in carne e ossa, diventa impossibile
o risulta improduttiva, inefficace. Insomma, vorrebbero che
i nostri allievi fossero ora asini ora ingeneri, ora api ora architetti,
sicuramente integrati, ma nello stesso tempo provvisori, precari. Con grandi
capacità cognitive, prima di base poi specialistiche, ma scarsa
interpretazione dialettica della realtà.
Ecco perché, una controriforma
come questa dei cicli scolastici, ha un impianto così pasticciato:
in realtà saranno gli attori protagonisti della pedagogia a sconfiggere
questa nuova anti-pedagogia
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