Un
sentiero di lettura a partire dai saggi di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti in
«Educazione e globalizzazione»
Le vie alla modernità - Il contributo di Michel Serres a
una educazione rivolta all'incontro con l'altro
MARIO PORRO
(da Il Manifesto del 2 giugno 2004)
La tradizione culturale
su cui si è costruito il pensiero democratico, dai Greci a Rousseau e Dewey, ha
sempre legato le sorti della politica a quelle dell'educazione. Nella
partecipazione alla vita della comunità l'individuo realizzava le capacità che
si erano affinate nella formazione: la gestione della cosa pubblica al servizio
della collettività era l'espressione più alta delle virtù etiche del singolo.
Oggi - come ci ricorda Piero Bertolini nel suo
Educazione e politica
uscito da Cortina - questo nesso sembra dimenticato: il vecchio principio per
cui il compito della formazione è insegnare a pensare in modo autonomo si
dissolve nel trionfo di un liberismo in cui dominano in modo esclusivo i criteri
dell'efficientismo, l'acquisizione di mere competenze tecniche per poter
navigare tra i flutti del «libero mercato». L'educazione, come formazione del
cittadino criticamente partecipe alla vita pubblica, diviene inessenziale quando
i governanti, semplici esecutori dello spirito d'impresa, finalizzano il sapere
solo alla gestione di strategie di successo individuale. L'immiserimento dei
progetti educativi appare dunque come l'altro volto del declino della politica
(e forse della democrazia stessa). Il che è ancora più grave quando la
formazione al senso della cittadinanza dovrebbe valicare i confini della
prossimità spaziale in cui l'umanità ha vissuto fino all'altro ieri. «Educare
all'era planetaria»: questo, osservano Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti in
Educazione e globalizzazione,
dovrebbe essere lo slogan di una possibile riforma dell'insegnamento.
Solo assumendo uno sguardo globale, che cerchi di
comprendere la complessità delle reti in cui si stringono i problemi del nostro
tempo, si può sperare di poter affrontare le sfide della società-mondo di cui
ormai facciamo parte. Invece, ricorda Edgar Morin nella prefazione, i sistemi di
insegnamento continuano a disgiungere le conoscenze, a formare menti
unidimensionali ed esperti riduzionisti. I nostri progetti educativi sono stati
programmati per formare i cittadini dello stato nazionale, per uniformare le
tradizioni locali agli standard di una sola cultura dominante. Ma l'odierna
carta della nostra identità - ricordano Bocchi e Ceruti - non è scritta solo
dall'appartenenza a un luogo, non si riduce alle chiusure nei particolarismi
locali: la saggezza degli etimi ricorda che idiotes, prima che ignorante
e stupido, ha il significato di uomo privato. Ogni individuo è unitas
multiplex, simultaneamente abitante di molti mondi, reali e possibili: nel
tempo della globalizzazione possiamo accedere ad una «cittadinanza planetaria»
che integra le altre forme di cittadinanza e per la quale occorre delineare le
coordinate di una paideia, di una formazione che assuma consapevolmente
la complessità dell'identità umana. Dagli anni `80 Bocchi e Ceruti hanno
contribuito in maniera determinante a diffondere i temi della complessità, fin
dalla promozione dei convegni La sfida della complessità e Physis:
abitare la Terra (entrambi editi da Feltrinelli); mentre presso l'Università
di Bergamo hanno promosso recentemente il «Centro di Ricerca sull'antropologia e
l'epistemologia della complessità». Il tentativo di riprogettare le scuole
impone di muoversi nell'orizzonte dei tempi lunghi che radicano la storia
millenaria della civiltà umana nell'evoluzione della nostra specie e nella
storia che la precede, quella che ha percorso la nostra Terra. Lo specifico
della genealogia familiare, individualizzato dai nostri vissuti, si radica a sua
volta nella lunga durata delle contaminazioni, delle ibridazioni e delle
contingenze che hanno caratterizzato la diffusione e la diversificazione della
specie umana sul pianeta.
Il destino politico non è più scindibile dal destino
planetario: la nostra stessa sopravvivenza è strettamente correlata al buon
funzionamento di un unico ecosistema globale, di cui siamo diventati
responsabili. Un umanesimo non antropocentrico deve allora annodare il legame
fra storia delle civiltà ed evoluzione fisico-biologica, iscrivere eticamente il
valore irripetibile di ogni esperienza di vita in quel sistema di riferimento
comune costituito dalla «Terra-Patria»: il vecchio detto di Protagora, l'uomo
come misura, va sostituito con «la Terra come misura», come suggerisce l'etimo
di geometria, modello di un sapere che sa far coabitare locale e globale.
L'età moderna ha pensato l'universale solo nella forma
della reductio ad unum, secondo il modello della cosmologia newtoniana o
della geologia di Lyell: le leggi fisiche che possiamo riscontrare localmente,
nello spazio che ci circonda, erano pensate all'opera nell'intero universo; il
tempo che scandisce la storia naturale della Terra era creduto obbedire sempre
alle stesse cause e agli stessi ritmi. In nome di questa strategia di
estrapolazione dal locale al globale la ragione dell'Occidente si è legittimata
e imposta come unica forma di civiltà e la mondializzazione in corso rischia di
sfociare in omologazione culturale e linguistica.
Anche le grandi svolte della storia della natura sono
frutto di eventi unici e irripetibili: lo sviluppo dei mammiferi e la comparsa
di Homo sapiens sono l'esito di estinzioni precedenti, di catastrofi
evolutive, non certo il compimento di una progressione lineare che troverebbe in
noi la definitiva perfezione. «L'umanità non è un destino: l'umanità è una
reinvenzione continua» - scrivono Bocchi e Ceruti: ramoscello superstite di un
cespuglio fittamente ramificato, sottoposto a potature casuali, l'uomo ha
elaborato culture molteplici, esiti di incroci e contaminazioni con popolazioni
differenti. L'alterità in questo cammino è stata indispensabile, la diversità ha
assunto valore in chiave evolutiva: di qui può sorgere una prospettiva di
condivisione in cui il legame con il luogo in cui affondano le radici della
propria cultura (la topophilia) si saldi con il senso di appartenenza a una
natura alla cui difesa tutti siamo chiamati a collaborare. Per usare i termini
di uno dei massimi esperti di geografia umana, Yi-Fu Tuan, cinese da tempo
residente negli Stati Uniti, si tratta di declinare insieme «il cosmo e il
focolare» (come recita il titolo di un suo libro edito da Elèuthera). La «nuova
alleanza» fra storia umana e storia della natura impone di smantellare
l'intreccio fra l'etnocentrismo dell'Occidente, e l'antropocentrismo incapace di
intendere l'umano se non come culmine del percorso evolutivo. La costruzione di
una civiltà della Terra, contrassegnata da una democrazia cognitiva, passa per
una considerazione dell'educare come promozione di una ecologia della mente.
Il nostro futuro è un futuro di contaminazioni, come lo è
stato il nostro passato: per non incorrere nella logica dei rendimenti
decrescenti propria delle monoculture occorre esporre l'identità a ibridazioni
reciproche, accogliere l'altro come fattore di arricchimento. La vita stessa
delle idee si nutre contaminando i campi di ricerca, lasciando meticciare stili,
metodi e prospettive eterogenee: l'innovazione è incrocio. È nei luoghi di
confine, negli spazi interstiziali fra le discipline che si avviano le scoperte:
il sapere è sempre più pratica di esplorazione, arte nomade della mescolanza
generalizzata. La prospettiva di Bocchi e Ceruti finisce così per incrociare le
suggestioni pedagogiche che Michel Serres sviluppava nel Mantello di
Arlecchino. Il «terzo istruito»: l'educazione dell'era futura (1991,
Marsilio). Abbiamo creduto, seguendo i cultori del postmoderno, che l'epoca
delle grandi narrazioni fosse conclusa; e invece oggi sono le scienze a fornirci
la trama di una «Grande Narrazione» che Serres, nel suo ultimo libro, L'Incandescent
(Le Pommier) propone come base di un programma comune a cui consacrare il
primo anno di studi universitari. Nel Grand Récit il percorso millenario
delle civiltà storiche che ha portato a costituire il mosaico delle lingue,
delle arti e delle religioni si raccoglie nell'alveo del cammino evolutivo dei
viventi, sullo sfondo dei tredici miliardi di anni che ci separano dalla
formazione dell'Universo.
L'intreccio fra le sorti dell'uomo e quelle della natura
implica la costruzione di un nuovo umanesimo che assuma le forme di un
«universalismo delle differenze». Riconoscere la pluralità delle vie possibili
alla modernità e assumere consapevolezza della contingenza delle esperienze di
civiltà è il primo precetto educativo per l'incontro con l'altro: la
contingenza, ci spiegava Serres, è la tangenza a un bordo comune, il toccarsi di
due varietà.
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