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Direttore:
Emilio Santoro
Comitato scientifico:
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Alessandro Margara,
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Claudio Sarzotti,
Gino Tapparelli,
Elena Urso,
Fulvio Vassallo Paleologo,
Danilo Zolo
Generalmente si definisce la devianza quell'insieme di comportamenti che infrangono il complesso dei valori che, in un dato momento storico e in un determinato contesto sociale, risultano validi e fondanti in base alla cultura del gruppo sociale dominante.
Non esiste una visione univoca del concetto di devianza, il quale ha assunto nel tempo significati e valenze molteplici.
Indipendentemente dall'orientamento teorico, comunque, si può affermare che la devianza si pone nei confronti della delinquenza in rapporto di genere a specie, nel senso che, se è vero che il delinquente è anche un deviante, un deviante non è necessariamente un delinquente. Devianza e delinquenza, quindi, non sono comportamenti definibili in assoluto, ma in funzione del contrasto tra determinati comportamenti e le regole sociali (1).
La scuola classica comprende le interpretazioni della criminalità, che emersero nel XVIII secolo.
Le idee più importanti di questa scuola sono: la concezione degli esseri umani come persone razionali in grado di esprimere una libera scelta, i diritti civili, la regolamentazione della prova e della testimonianza, la certezza delle sentenze.
Nel XVIII secolo assistiamo a continui mutamenti sociali, specie per quanto riguarda il sistema giudiziario. La legge, fondata sulle strutture religiose medievali, era il prodotto di interpretazioni giudiziarie arbitrarie. In seguito al prevalere delle idee riformatrici e della corrente filosofica naturalistica, si iniziò a guardare all'uomo come essere razionale e a considerare fondamentale il concetto della dignità umana.
La scuola classica contribuì ad una concezione umanistica del sistema legale e della giustizia penale, secondo la quale la legge doveva proteggere sia la società che l'individuo. Il suo scopo era quello di fungere da deterrente al comportamento criminale e, dunque, implicava il considerare gli uomini essere razionali, liberi nell'agire, capaci di ponderare il piacere da trarre da un comportamento illegale rapportandolo con la punizione .
L'interesse della scuola classica verso la legislazione e la giustizia penale, piuttosto che verso i comportamenti criminali, si configura come approccio strumentale, basandosi sulla necessità di dimostrare a una persona razionale che non avrebbe tratto alcun vantaggio dalla violazione dei diritti altrui .
Chi ha realizzato noti lavori sul funzionamento del sistema penale, sono stati Cesare Beccaria e Jeremy Bentham, i quali si opponevano al sistema giudiziario dell'epoca, del tutto arbitrario, proponendo, invece, di porre alla base delle leggi e dell'amministrazione giudiziaria la razionalità e i diritti umani (2).
Diversa è l'interpretazione dei positivisti, i quali vedevano il comportamento umano come determinato da tratti biologici, psicologici e sociali. Le caratteristiche principali del pensiero criminologico positivista consistono in una visione deterministica del mondo e nell'interesse verso il comportamento criminale in sé, piuttosto che verso i diritti, la prevenzione del crimine, la riabilitazione dei rei.
La scuola positiva fu influenzata dalla filosofia positiva, secondo la quale gli esseri umani erano ritenuti responsabili dei loro destini, in grado di adattare i loro comportamenti e le istituzioni sociali per creare una società che soddisfacesse le loro aspirazioni. Fu, inoltre, influenzata dal concetto di evoluzione (poi sviluppato esaurientemente da Darwin con la sua teoria) che portò alla definizione di criminali come esseri non evoluti. Subì, infine, l'influsso della nascente antropologia che, nello studio delle popolazioni, non trovando organizzazioni sociali che ricalcassero il modello europeo, concludeva che le altre società erano meno evolute, più primitive, più vicine alla natura umana originaria. Tra i più autorevoli esponenti della scuola positiva c'è sicuramente Cesare Lombroso, considerato il padre della criminologia moderna, secondo il quale il criminale è un primitivo in cui sono presenti istinti feroci non controllabili (3).
gli, anatomizzando un cranio, notò un'anomalia morfologica congenita costituita da una fossetta cerebrale, tipica degli animali inferiori; ciò lo portò a concludere che questa conformazione fosse tipica dell'individuo delinquente. Il delinquente, dunque, per queste caratteristiche fisiche e psichiche primitive è indotto a commettere delitti. Egli coniò così il termine "delinquente nato".
In seguito lo stesso Lombroso ampliò la sua teoria affiancando alle cause biologiche anche i fattori economici e sociali.
Queste considerazioni sono state poi sviluppate dal suo allievo Enrico Ferri, il quale individuò come fattori causali della delinquenza quelli di tipo fisico (geografia, etnia, clima); quelli di tipo antropologico (età, sesso, psiche) e quelli sociali (costumi, religione, economia).
Un altro notevole studio è stato fatto da Raffaele Garofalo, il quale individuando alla base del comportamento criminale una combinazione di cause ambientali e naturali, definiva questa attitudine come "mancanza di sensibilità altruistica" dando per certo che le anomalie fisiche e psichiche erano più frequenti tra i membri di "certe razze inferiori".
Altri positivisti compirono sforzi significativi nel campo biologico. Esaminando i precedenti familiari dei criminali, essi individuarono che il "comportamento criminale" è ereditario, evidenziando, inoltre, come certe caratteristiche del corpo sono fondamentali per la predisposizione a commettere atti criminali.
Successivamente, si tentò di spiegare, somministrando test d'intelligenza nei confronti dei devianti, come la criminalità fosse la conseguenza di una mancanza d'intelligenza. (4)
La scuola di Chicago affronta il tema dello sviluppo e del cambiamento del comportamento umano indotto dall'ambiente fisico e sociale in cui si vive, considerando la comunità come il principale elemento di influenza sul comportamento dei singoli, compiendo studi sull'individuo e le città.
Gli studiosi di scienze sociali all'inizio del XX secolo si confrontarono con molti fenomeni sociali inediti, tra i quali l'industrializzazione, lo sviluppo delle grandi città, l'immigrazione di massa. In particolare considerarono le città come principali responsabili dei problemi sociali.
In base alle osservazioni compiute, da cui risultava evidente che la città fosse un luogo dove la vita sociale è superficiale, le persone sono anonime, le relazioni transitorie, i ricercatori definirono l'indebolimento delle relazioni sociali primarie come un processo di disgregazione sociale, che diventò la principale chiave di lettura dell'origine della criminalità.
La crescita delle città, secondo un modello a zone concentriche, fornì alla Scuola di Chicago le basi per spiegare la criminalità e la delinquenza.
La teoria stabilì che vi sono usi dominanti del territorio all'interno di ogni zona.
La zona di transizione, adiacente a quella centrale degli affari, aveva un livello di disgregazione sociale maggiore di altre aree, a causa dell'altro grado di mobilità, dell'aspetto degradato dei quartieri e soprattutto per la presenza degli immigrati.
Un ulteriore aspetto rilevante è quello dell'influenza che questo modello di città e la disgregazione sociale che ne consegue hanno sui giovani. Tale elaborazione concettuale, definita come "teoria della trasmissione culturale", sostiene che i giovani che vivono in aree socialmente disgregate hanno maggiori possibilità di stare a contatto con individui criminali subendone l'influenza.
Ma fra tutti gli approcci, è stato l'interazionismo simbolico la prospettiva più feconda della scuola di Chicago. L'interazionismo simbolico si sviluppa dall'idea che il comportamento umano sia il prodotto di simboli sociali scambiati tra individui.
L'idea basilare è che la mente e il sé non sono elementi innati, ma sono costruiti dall'ambiente sociale: è attraverso il processo comunicativo o di simbolizzazione che gli individui definiscono se stessi e gli altri.
Infatti sono i simboli, che recano in sé dei significati, ad influenzare il nostro modo di vedere la realtà che ci circonda. Noi tendiamo ad autodefinire noi stessi anche in base alla percezione di ciò che gli altri pensano di noi.
In altre parole definiamo la nostra identità riflettendoci negli altri; possiamo perciò avere molte identità in relazione al contesto in cui ci troviamo. Nella vita sociale, può capitare di inquadrare la situazione in modo errato e di comportarsi in modo non conforme. Bisogna, dunque, definire la situazione correttamente per rispondere con una forma accettabile di comportamento.
Tutto ciò permise alla Scuola di Chicago di comprendere la devianza, considerando il comportamento umano come "relativo". Il comportamento umano, quindi, non sarebbe governato da nessun sistema di regole universali, né da principi assoluti. (5)
Sutherland, principale autore della teoria dell'associazione differenziale, afferma che il comportamento criminale viene appreso all'interno di un certo ambiente sociale, come qualsiasi altro comportamento.
Con l'espressione "associazione differenziale" Sutherland intendeva che "i contenuti dei modelli dell'associazione" variavano a seconda gli individui. In generale, la teoria afferma che il comportamento criminale viene appreso mediante l'associazione con persone con cui si intrattengono rapporti intimi, in un processo di comunicazione interattiva. All'interno di questa comunicazione vengono apprese sia le tecniche necessarie al compimento del crimine che le spinte motivazionali ad assumere un comportamento criminale (6).
Il concetto di anomia è legato al lavoro di due studiosi: Emile Durkheim e Robert Merton.
Per Durkheim il termine "anomia" è associato alla mancanza di norme all'interno di una società, in riferimento al fatto che, quando le regole procedurali generali (quelle rivolte al comportamento da seguire nei rapporti con gli altri) si svuotano di efficacia e di significato, le persone non sanno più cosa aspettarsi l'una dall'altra (7). In seguito, Durkheim usò il termine anomia in riferimento alla condizione moralmente deregolata, per cui le persone hanno uno scarso controllo sul loro comportamento (8).
La teoria dell'anomia di Merton, invece, è basata più sul concetto di devianza che su quello di criminalità.
Merton notò che all'interno della società certe mete vengono messe in risalto più di altre (ad esempio il successo economico) e che la società ritiene legittimi certi mezzi per raggiungerle. Quando quelle mete vengono enfatizzate in modo pressante, si creano le condizioni per l'anomia: non tutti gli individui hanno uguale possibilità di successo economico con mezzi legittimi, di conseguenza tenteranno di raggiungere la stessa meta anche con mezzi illegittimi. A causa della disgregazione sociale non tutte le mete del successo sono accessibili a tutti. Certi gruppi sociali, come le classi inferiori e le minoranze, possono trovarsi svantaggiati qualora cerchino di guadagnare posizioni di successo subendo così la condizione anomica.
In conclusione Merton ha cercato di spiegare come una struttura sociale patologica, incapace di fornire a tutti i membri le stesse opportunità, finisce per indurre una certa tensione, spingendo gli individui verso la devianza, e che dunque sono le classi inferiori a soffrire in misura maggiore delle condizioni anomiche a ad essere coinvolte maggiormente in attività devianti (9).
Negli anni cinquanta e sessanta, le teorie criminologiche, hanno avuto come oggetto di studio la "delinquenza giovanile". Molti studiosi in particolare hanno tentato di spiegare quello che ritenevano fosse la forma più diffusa di delinquenza:le bande, analizzandone l'origine e il contesto, valorizzando, inoltre, il nuovo concetto di subcultura.
I criminologi studiando le bande giovanili e le subculture delinquenziali, cercarono di coniugare il lavoro della Scuola di Chicago con la teoria dell'anomia di Merton.
Un'influenza significativa sui teorici delle subculture degli anni cinquanta la esercitò il lavoro di Solomon Kobrin che studiò, in particolare, le relazioni esistenti tra le generazioni di sesso maschile all'interno di una comunità di classe inferiore. Da queste osservazioni Kobrin elaborò il concetto di comunità integrata.
Quando le comunità sono integrate e organizzate, vuol dire che c'è un controllo sociale sul comportamento dei giovani che deriva dal fatto che i membri delle organizzazioni criminali sono interessati nel controllare e prevenire la violenza nell'area dove vivono.
Altro ricercatore, A.K. Cohen, osservò che le subculture giovanili si caratterizzavano per atteggiamenti di tipo non utilitario, prevaricatore e negativo; i giovani devianti provavano soddisfazione nel causare disagio ad altri, tentando di oltraggiare i valori delle classi medie, coinvolgendosi in forme diverse di delinquenza, con obiettivi immediati.
Cohen affermò che tutti i giovani vanno alla ricerca di uno status sociale, però non tutti possono raggiungerlo con le stesse opportunità, specialmente i figli delle famiglie delle classi inferiori che mancano di vantaggi materiali e simbolici.
La frustrazione da status può far scaturire vari tipi di adattamento rispetto ai valori delle classi medie, vengono così poste nuove norme, nuovi criteri che legittimano certi comportamenti, che portano alla creazione di una nuova forma culturale: una subcultura delinquenziale.
Cohen afferma che le tensioni prodotte dalla disgregazione sociale creano un disagio comune a molti giovani dei ceti subalterni, cioè se diventano delinquenti, dipende molto dal modo in cui interagiscono coi membri della subcultura delinquenziale, considerando i componenti delle bende come "altri significativi" e identificando la soluzione dei problemi con la subcultura delinquenziale.
Secondo Cloword e Ohlin, autori della teoria delle opportunità differenziali, esisteva più di un modo attraverso il quale i giovani potevano realizzare le loro aspirazioni. Nelle aree urbane abitate da classi inferiori, dove le opportunità legittime erano poche, se ne trovavano altre; ma, a loro volta, queste erano limitate nell'accesso, come nel caso della struttura legittima. Così la posizione sociale determina la capacità di utilizzare sia i canali legittimi che quelli illegittimi verso il successo.
Questi due autori, affermano che ogni forma di subcultura delinquenziale dipende dal grado di integrazione presente nella comunità, vedendola come struttura di apprendistato, infatti man mano che gli individui si fanno strada all'interno del business malavitoso, possono riuscire a ottenere i mezzi necessari a iniziare un'attività legittima. (10)
La teoria dell'etichettamento operò una grande svolta teorica all'inizio degli anni sessanta.
Gli studiosi sostennero che le teorie del passato avevano prestato eccessiva attenzione alla devianza individuale trascurando i vari modi in cui la società reagiva ad essa.
Questa posizione teorica venne denominata scuola della percezione sociale.
Ponendo la figura del criminale in secondo piano, la teoria dell'etichettamento mostrava interesse nei confronti delle agenzie preposte al controllo del crimine (polizia, magistratura).
Secondo Becker, uno dei principali teorici della scuola, la devianza dipende dal punto di vista di chi osserva, poiché i membri dei vari gruppi hanno concezioni differenti di ciò che è giusto e conforme, che variano a seconda delle situazioni.
Inoltre, perché esista devianza è necessario che vi sia una reazione all'atto commesso. La devianza, per essere considerata tale, deve essere scoperta da qualche gruppo che non ritiene conforme un dato comportamento. Se la legge rispecchia i valori di quel gruppo, il comportamento verrà considerato un reato e il suo autore sarà un criminale.
L'approccio dell'etichettamento abbraccia due aspetti: la spiegazione del come e del perché certi individui vengono etichettati e gli effetti dell'etichettamento sul comportamento deviante. Il primo aspetto consiste nello scoprire le cause dell'etichettamento, di cui l'elaborazione più famosa è quella formulata da Becker: "I gruppi sociali creano la devianza stabilendo delle regole la cui violazione costituisce un atto deviante, e applicandole a persone particolari etichettate come outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non consiste nella qualità dell'atto che una persona commette, ma è una conseguenza dell'applicazione delle regole e sanzioni su di un reo" (11). Per quanto riguarda il secondo aspetto, cioè le conseguenze subite dalle persone etichettate, si possono rilevare due modalità di questo processo: da un lato gli effetti criminogeni dell'etichetta di deviante, dall'altro gli effetti dell'etichetta sull'immagine di sé. Entrambi i processi possono portare ad un'espansione della devianza, dando avvio ad una carriera deviante.
L'individuo - dice Lemert - non valuta l'impatto che l'atto iniziale (devianza primaria) può avere sull'immagine di sé. Ognuno ha una propria sensibilità alla reazioni altrui. La persona etichettata, se non ha un'immagine di sé ben definita, può arrivare ad accettare quella offertagli dagli altri, modificando così la propria identità.
La devianza, dunque, viene acquisita attraverso un processo di scambio reciproco, che ha termine quando la persona etichettata accetta l'etichetta come un'identità reale. Ne consegue spesso che il deviante entri a far parte di una subcultura che produce ulteriore devianza. Il processo di etichettamento porta, dunque, alla devianza secondaria (12).
Sin dal sorgere della Criminologia, le teorie che si proponevano di spiegare la criminalità e la devianza in genere, si distinsero, secondo le scuole di pensiero che le elaboravano, in due orientamenti: l'indirizzo individualistico e l'indirizzo sociologico. Il primo, incentra il suo studio sulla personalità del singolo individuo delinquente ed individua le cause della criminalità nei fattori endogeni: esso sostiene
la predisposizione individuale alla delinquenza, cioè la probabilità dei soggetti segnati da certe caratteristiche di pervenire al crimine.
Viceversa, il secondo, movendo dal postulato che il reato non è un fatto individuale isolato ma un prodotto dell'ambiente, incentra lo studio della criminalità sulla realtà socio-ambientale e ricerca le cause della delinquenza in fattori esogeni: il delitto è un fenomeno sociale generale, non eliminabile, ma modificabile nella qualità e quantità col mutare del contesto sociale in cui si manifesta. Lontane dal determinismo biologico ma vicine all'indirizzo socio-psicologico, si pongono le principali teorie sulla devianza degli immigrati, che considerano il comportamento deviante come la risultante del disadattamento sociale e dei sentimenti di esclusione e di frustrazione vissuti nel Paese di destinazione.
Nonostante gli studi e le ricerche d'inizio secolo sui due più grandi flussi migratori del nostro tempo avessero evidenziato che gli stranieri commettevano reati meno frequentemente dei nativi, all'immigrazione è stato comunque conferito il significato di fattore criminogeno.
Un'importante riflessione su questo tema è data dal rapporto, che, poco più di trent'anni fa Franco Ferracuti con il suo Trattato di criminologia, presentava alla Quinta Conferenza dei Direttori degli istituti di ricerca criminologia del Consiglio di Europa, tenutosi a Strasburgo ne novembre del 1967.
Nel suo saggio, "L'emigrazione europea e la criminalità nel 1970" Ferracuti di orientamento forense, riassume le tendenze degli studi e i risultati delle ricerche, rilevando che, negli anni '70, la criminalità dei lavoratori stranieri non fosse maggiore di quella dei nativi e che il pregiudizio dello "straniero più criminale dell'autoctono" è la conseguenza di una sorta di reazione xenofoba.
Nelle sue riflessoni, Ferracuti, sottolinea l'importanza degli aspetti socio-psicologici della devianza: le conseguenze del processo di adattamento e di difesa alle frustrazioni che il migrante subisce durante il processo migratorio; le modificazioni psicologiche connesse allo spostamento migratorio, per cui le tensioni provocate dalla migrazione potrebbero ridurre le possibilità di adattamento di un individuo o a portarlo a vere malattie mentali, la cui conseguenza potrebbe essere la commissione di reati.
Ci sono altre tre teorie fondamentali, quelle di Sellin, la prima viene chiamata "Del conflitto di culture", la seconda "Del controllo sociale" la terza "Della tensione e della privazione relativa".
Queste ultime due sono anche le teorie più usate per spiegare le forme di devianza di ogni individuo e dunque anche di coloro che restano tutta la vita nel paese in cui sono nati (13).
Per Thorsten Sellin, il sociologo americano che, alla fine degli anni '30, ha proposto la teoria di conflitto di culture, ogni società ha le proprie norme di condotta, che vengono trasmesse da una generazione all'altra. Nelle società semplici, culturalmente omogenee vi è una tendenza all'armonia e all'integrazione: le norme di condotta diventano leggi e godono di un consenso generale. Nelle complesse società moderne, invece, i conflitti fra le norme dei diversi gruppi diventano frequenti.
Secondo la teoria di conflitto di culture chi commette un reato lo fa perché resta fedele alle norme di condotta del suo gruppo di appartenenza, ai valori che ha interiorizzato nei primi anni di vita.
Le motivazioni del suo comportamento sono identiche a quelle di chi rispetta la legge. Non è solo l'individuo ad essere deviante dalla società nel suo complesso, ma il gruppo cui egli appartiene.
I conflitti culturali possono essere di due tipi: conflitti primari, quelli, cioè determinati dall'attrito tra differenti culture e i conflitti secondari che hanno luogo invece nell'ambito stessa cultura.
I conflitti primari si verificano quando i sistemi culturali si sovrappongono: fino a quando non sia intervenuta una piena integrazione, il persistere dei valori culturali di origine crea conflitto con i nuovi valori.
Si determina, cioè, un indebolimento dei primi senza che sia ancora avvenuta l'assimilazione dei secondi generandosi una condizione d'incertezza nell'individuo e un conseguente vacillamento dei sistemi individuali di controllo della condotta. Anche i conflitti secondari possono tradursi in fattori di insicurezza e favorire la condotta deviante. Tali conflitti sono dovuti ad un processo di differenziazione sociale che può avvenire sia per effetto della discriminazione, del rigetto e dell'emarginazione da parte della società ospitante, sia a causa della modificazione della cultura originaria sotto l'influsso del nuovo ambiente di vita.
Più pessimista è invece la concezione del mondo su cui si basa la teoria del controllo sociale. L'uomo è considerato come un essere debole, fragile, portato a violare le leggi piuttosto che rispettarle. L'interrogativo di fondo da porsi non è "perché alcune persone commettono dei reati?" ma quello opposto: "perché la maggior parte delle persone non li commette?".
Secondo questa la teoria ciò avviene perché gli individui sono frenati da vari tipi di controllo sociale.
Tra i controlli vi sono quelli esterni cioè le varie forme di sorveglianza esercitate per scoraggiare o impedire, con la minaccia o l'uso di sanzioni, i comportamenti devianti. E quelli interni che si distinguono, a loro volta, tra diretti (sentimenti di colpa e di vergogna che prova chi viola una norma). E indiretti che si manifestano nel desiderio di non perdere la stima e l'affetto delle persone più care. Quanto più una persona è legata ai genitori, ai parenti, agli insegnanti, agli altri significativi, tanto più è difficile che si infranga le leggi.
E' una collaudata legge criminologia che quanto più stabile ed ordinato è un contesto sociale, tanto meno rilevanti sono le condotte devianti degli individui.
La correlazione tra devianza e disorganizzazione sociale rappresenta, infatti, una costante criminologia: il deviante è un soggetto normale, che vivendo in una società, in una comunità, in un gruppo disorganizzato, tende a disorganizzare anche la propria condotta.
La teoria del controllo sociale rappresenta un tentativo di integrazione dei fattori individuali ed ambientali della devianza. Essa considera in modo specifico l'azione dei "controlli interni" ed "esterni", capaci di regolare la condotta umana.
I "contenitori interni" quelli legati alla struttura dell'individuo, sono responsabili dell'adeguamento del comportamento agli stimoli socio-ambientali e sono rappresentata da un buon autocontrollo, da un buon concetto di sé stessi, dall'alta tolleranza alle frustrazioni, dalla capacità di socializzare, dal senso di responsabilità.
I "contenitori esterni", di tipo normativo- culturale, costituiscono il freno che agisce nell'immediato contesto sociale del soggetto e che gli permettono di non oltrepassare il limite normativo.
Essi sono rappresentati dalle aspettative sociali, dalle opportunità di consensi nel proprio ambiente, dall'identità e dal senso di appartenenza ad un gruppo.
La carenza dei contenitori sia interni che esterni costituisce per il soggetto un elemento di vulnerabilità che rende conto, nel singolo caso, delle ragioni della condotta deviante.
Tale teoria contribuisce a spiegare perché in genere gli immigrati della seconda generazione commettano più spesso reati di quelli della prima attribuendo questa differenza all'indebolimento dei legami fra i figli e i genitori.
La teoria che più ci aiuta a dare una risposta alla questione che stiamo affrontando è quella della tensione e della privazione relativa.
Per la teoria della tensione e della privazione relativa, l'individuo è un animale morale, che durante l'infanzia e l'adolescenza interiorizza le norme della società in cui vive e che è portato a seguire. Sin dalle origini della ricerca criminologia, povertà e qualificazione sociale, sono state a lungo considerate tra le cause principali della criminalità, fino a darne una definizione in chiave di determinismo economico.
In questo tipo di approccio, andrebbero considerati tutti i fattori (culturali-biologici-psicologici-giuridico-politici) che insieme a quelli economici, influiscono sulla genesi della condotta antisociale.
Essa ci serve innanzitutto a spiegare una sorprendente differenza che si ha nel nostro Paese, sia gli immigrati regolari che quelli irregolari violano più spesso le leggi nel Nord che nel Sud.
Per la verità, partendo dalla più favorevole situazione del mercato del lavoro, delle regioni settentrionali, si potrebbe ipotizzare l'opposto.
Non vi è dubbio, infatti, che in queste regioni è più facile per gli immigrati trovare un lavoro stabile, continuo, con una retribuzione discreta. Ma secondo i sociologi Mottura e Pugliese, per i cittadini extracomunitari, vi sono maggiori possibilità di inserimento nel Sud. Nell'industria e nel terziario è più facile trovare un'occupazione senza il permesso di soggiorno, e dunque per gli immigrati irregolari, vi sono maggiori possibilità di sopravvivere senza ricorrere ad attività illecite meridionale.
Nelle metropoli sempre più caratterizzate dalla deindustrializzazione e dallo sviluppo del "terziario avanzato", per far funzionare gli uffici economici e finanziari, le strutture tecnologiche, ricreative o sportive, oppure le istituzioni pubbliche, sono necessari custodi, pulitori, guardiani di notte, addetti alla manutenzione degli impianti. Gli unici posti di lavoro disponibili e opportunità professionali per i nuovi arrivati, sono quelli in fondo alla scala delle carriere (ad esempio, all'interno di una azienda, operaio generico e non impiegato), delle mansioni e anche delle tutele e dei diritti. Questi tipi di lavori sono quelli dove si registra con maggiore frequenza l'occupazione irregolare e il lavoro nero, la difficoltà nel fare rispettare i contratti, forme di sfruttamento dei lavoratori.
Ci troviamo di fronte ad un ventaglio di situazioni molto ampio e diversificato: la regolarità e l'irregolarità del lavoro prendono forme diverse secondo i settori e le zone del paese; in alcuni casi la provenienza dei lavoratori non è decisiva ai fini delle condizioni della relazione con il datore di lavoro e con l'attività da svolgere; in altri, l'essere immigrati influisce pesantemente sui termini dell'accordo lavorativo, costringendo ad accettarne il lavoro irregolare, fluttuante, sottopagato.
Esiste, dunque, un problema di legalità del lavoro (che in Italia poi è particolarmente acuto visto il peso che nel nostro paese detiene tuttora l'economia in nero), su cui si innesta la presenza di lavoratori più svantaggiati, più disponibili ad accettare condizioni poco favorevoli, meno informati sui loro diritti (14).
Un elemento che indubbiamente suscita preoccupazione è l'aumento del 67,40% dei minori di anni 14 denunciati. Tale aumento ha avuto il suo picco più evidente nel 1990, attestandosi poi negli anni successivi.
Sembra in sostanza che si sia verificata una sorta si preconizzazione dell'ingresso nel circuito penale da parte di minorenni. Tale dato desta un certo allarme, in primo luogo, in quanto sono ragazzi, anzi bambini, in certi casi, che hanno meno di 14 anni; in secondo luogo, perché si tratta di quella fascia di età che nella nostra legislazione non è perseguibile penalmente ma può incorrere nelle cosiddette misure di sicurezza (il riformatorio giudiziario e la libertà vigilata). Spesso nelle prassi operativa per questi ragazzi,paradossalmente, in quanto non punibili, non sono previsti interventi specifici.
Un'altra ipotesi può essere probabilmente tale aumento sia legato a una maggiore sensibilizzazione sociale circa i problemi del mondo minorile e che quindi comportamenti devianti vengono adesso "visti" e quindi denunciati: ossia potrebbe essersi verificato che si sia sviluppato un atteggiamento più attivo nel segnalare episodi delittuosi.
Anche per i ragazzi punibili penalmente, quelli cioè che hanno un'età compresa tra i 14 e i 18 anni, il numero dei denunciati è in aumento.
Oltre al sensibile aumento delle denunce, si assiste anche a un cambiamento della "qualità" della criminalità minorile, nel senso di una crescente gravità dei reati loro attribuiti. Infatti, nell'arco temporale considerato, l'aumento più consistente riguarda i cosiddetti delitti contro la persona e la famiglia, rispettivamente del 74,25% e dell'82,82%. I reati contro il patrimonio segnano un minore anche se consistente aumento percentuale: "solo" del 46,57%.
Tali informazioni sono di particolare interesse in quanto la criminalità minorile ha avuto tradizionalmente come suo terreno d'azione reati relativi al patrimonio (in particolare i furti), caratterizzandosi meno per la commissione di azioni delittuose di particolare violenza come quelle contro la persona, che rimanevano invece residuali ed eccezionali.
In altri termini, sembra che gli adolescenti, con sempre maggior frequenza, mettano in atto non solo comportamenti devianti in quanto tali, ma si facciano protagonisti di azioni di una certa gravità, come gli omicidi volontari, le lesioni volontarie. In primo luogo, per quanto riguarda gli omicidi volontari, questi sono aumentati in generale del 41,17%.
Un'evoluzione analoga ha visto il tentato omicidio: anch'esso ha registrato un aumento (+7,93%) e ha come "protagonisti" i minori in età punibile.
Tuttavia la tipologia di delitto che ha avuto il maggior incremento percentuale tra quelli contro la persona è quella delle lesioni volontarie: i minorenni denunciati per tale reato aumentano, infatti, del 65,13%.
La maggior frequenza di denunce per questi tipi di crimini contro la persona appare ancora più significativa se letta anche tenendo in considerazione la questione del numero oscuro, ossia quella quota di delitti effettivamente commessi ma non registrati dalle diverse "agenzie" ufficiali.
Il numero oscuro varia a seconda dei diversi tipi di reato: per quelli contro la persona è limitato. Occorre quindi interpretare gli incrementi di queste tipologie di reato come "reali" e significativi di un effettivo "peggioramento" della qualità della delinquenza minorile. Tra i reati contro il patrimonio particolare allarme suscitano i dati relativi ai furti, alle rapine, alle estorsioni e alle ricettazioni.
A riguardo i minori stranieri denunciati sono aumentati del 120,4%.
La loro presenza sul territorio nazionale si registra soprattutto nelle Regioni del centro-Nord, in particolare nel Lazio, in Toscana, Lombardia e Veneto.
Si fanno protagonisti di azioni criminali soprattutto contro il patrimonio (furti) e l'economia (infrazione leggi stupefacenti).
Le informazioni circa la "qualità" dei delitti "caratteristici" dei minori stranieri trovano conferma anche prendendo in considerazione le imputazioni di quelli che hanno fatto ingresso nei CPA.
Sono infatti i furti, le rapine, il traffico di stupefacenti e l'associazione a tal fine le azioni delittuose da essi messe in atto più frequentemente.
Inoltre se si confrontano i dati rispetto ai delitti commessi da minori italiani, gli stranieri hanno come comportamento delittuoso specifico il furto.
Quando si parla di minori stranieri che delinquono nel nostro paese, si deve tener presente che essi sostanzialmente sono di provenienza nord-africana (Tunisia, Algeria, Marocco) e slava (nomadi).
Entrambi i gruppi trovano nelle aree centro-settentrionali terreno fertile per azioni delittuose tipiche. In particolare i primi si dedicano ad attività connesse con la detenzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti, mentre i secondi a reati contro il patrimonio, come su detto.
Nelle grandi metropoli del Centro-Nord, le varie organizzazioni criminali che hanno interessi legati alla droga utilizzano per lo spaccio al minuto minori nordafricani (in particolare tunisini e algerini); si tratta di minori disponibili ad essere "cooptati" dalle organizzazioni criminali perché o privi di un'attività lavorativa o perché se lavorano vengono scarsamente retribuiti.
Spesso poi alcuni di loro vengono reclutati direttamente negli Stati di provenienza e fatti entrare clandestinamente nel nostro paese, al fine di commettere tali reati.
Gli zingari che commettono reati non appartengono a tutte le comunità zingare o nomadi d'Italia, ma solo a quelle (prevalentemente Rom e Khorakhanè di recente provenienza dalla ex Jugoslavia) che traggono i mezzi economici di sussistenza quasi esclusivamente da attività illegali. Il reato tipico è il furto con scasso in appartamento, che viene commesso da minorenni, in particolare da quelli appartenenti cronologicamente alla fascia dei non imputabili.
Anche questo fenomeno interessa in prevalenza le zone centro-settentrionali.
La loro presenza sul territorio nazionale nell'area del Centro-Nord viene confermata anche dai dati relativi agli ingressi in IPM: sono, infatti, gli istituti di queste zone che vedono il maggior numero di ingressi di minori stranieri (15).
(1) Melita Cavallo, Ragazzi Di Strada, Paravia Scriptorium pag. 7-14.
(2) Frank P. Williams III, Marilin D. Marylin D. McShane Devianza e criminalità - Il Mulino-Bologna 2002 pag.25-35
(3) Melita Cavallo, op. cit., pag. 16.
(4) Ult. Op. cit., Pag. 37-53.
(5) Op. Cit.. Pag. 55-69.
(6) Williams- Mc Shane, ult. op. cit., pagg. 72-80.
(7) Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1999 (ed.or.1893).
(8) Durkheim, Il suicidio. L'educazione morale, Torino, Utet, 1998 (ed.or.1897)
(9) Ult. Op. Cit.. Pag. 81-97.
(10) Ult. Op. Cit. Devianza e Criminalità. Pag 98-117.
(11) Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Torino, Ega, 1987 (ed.or.1963).
(12) Ult. Op. Cit.. Pag 119-137.
(13) M. Di Bello, La "catena" della devianza: traffico-sfruttamento e criminalità.
(14) Immigrazione e Reati in Italia - Barbagli - Il Mulino. Pag. 167-181.
(15) La devianza Minorile - Gaetano De Leo. Pag. 205-222.
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