Pier Paolo Frassinelli
Aziendalizzazione dell'istituzione universitaria; flessibilizzazione dell'intero sistema educativo: tutti uniti sulla via della concorrenza e della competitività. La "learning society" come marketing, l'istruzione come merce: analisi e spunti di analisi per opporvisi
Si neghi una quota dell'immateriale ai giovani
della classe lavoratrice,
ed essi diverranno uomini che
domandano minacciosamente
il comunismo del materiale.
Sir Henry Newbolt
rapporto governativo sull'insegnamento dell'inglese in Inghilterra,
1921
Sta per partire la riforma dell'università italiana, che
dal prossimo anno accademico introdurrà nuovi sistemi di valutazione
e percorsi formativi, cui si andranno ad accompagnare novità nel
campo dell'autonomia, nella formazione delle gerarchie accademiche e nello
stato giuridico dei docenti. A preannunciare l'evento, un dibattito in
cui quel che appare in superficie è una notevole confusione, nella
quale comunque si può udire ben distinto il coro di voci che si
levano ad intonare il familiare ritornello modernizzazione, efficienza,
apertura al mercato, competitività, ecc.. Difficile, dall'esterno,
cogliere i dettagli dei giochi politici e delle battaglie intestine in
atto tra i vari gruppi di potere e corporazioni accademiche, i cui risultati
determineranno i futuri sviluppi del trapasso in corso. Ci pare comunque
importante dare sostanza analitica alla denuncia di questo annunciato ulteriore
balzo in avanti nel processo di mercificazione della formazione e ricerca
accademica. Innanzitutto perché non costituisce affatto una novità.
Al di là dei vari interventi normativi che hanno progressivamente
agevolato la collaborazione delle istituzioni accademiche pubbliche con
il settore privato, è da molto tempo, per esempio, che in Italia
i docenti universitari fanno largo uso, attraverso consulenze ed incarichi
presso enti, imprese ed aziende, della propria funzione pubblica per finalità
commerciali.
Può risultare quindi utile in questa sede collocare gli specifici
cambiamenti in atto nel loro contesto transnazionale, così da tentare
di individuarne gli elementi specifici e magari le contraddizioni [si rinvia
anche alla serie di articoli pubblicati da Remo Ceserani su questo tema
su il manifesto, 5, 6, 7 gennaio 2000]. Per far ciò si intende
qui presentare alcuni spunti di analisi e di informazione su quelli che
vengono spesso indicati come i modelli di maggior successo su scala mondiale,
ovvero il sistema inglese e soprattutto quello americano.
Sul versante della propaganda, per sottolineare la necessità
di flessibilizzare l'intero sistema educativo onde far fronte alla cosidetta
"globalizzazione", sono state colà coniate ed ampiamente propagandate
una serie di formule quali "knowledge economy" [economia della conoscenza,
o, economia fondata sulla conoscenza] e "learning society" [società
dell'apprendimento], che mirano ad enfatizzare la crescente importanza
socio-economica dei processi formativi ed, in particolare, del ruolo svolto
dalle istituzioni accademiche all'interno di essi. Al di là dell'ovvia
distorsione ideologica di tali definizioni - negli Stati Uniti, a proposito
di società dell'apprendimento, circa un terzo dei lavoratori subordinati
sono "analfabeti funzionali" (cioè non sono in grado di decifrare
e comprendere elementari informazioni scritte) - vanno comunque còlti
i processi reali cui esse si richiamano.
Il quadro che ci viene presentato raffigura il passaggio, già
in fase avanzata negli Stati Uniti ed ora, a partire dalla Gran Bretagna,
pronto ad estendersi in tutta Europa, da un sistema accademico legato alla
formazione storica dello stato-nazione - i famosi apparati ideologici di
althusseriana memoria - ad una rete transnazionale di università
autonome che operano secondo princìpi propriamente aziendali. Ciò
che sarebbe reso necessario dall'accresciuta competitività su scala
mondiale, dalle nuove richieste di apprendimento dei soggetti che si affacciano
sul mercato del lavoro, dai sempre piú alti costi della ricerca
scientifica specializzata, dall'esigenza di introdurre criteri di efficienza
ed economicità, ecc.. La Banca mondiale, tanto per citare una fonte
autorevole, nel 1998 ha redatto un documento intitolato Il finanziamento
e l'amministrazione dell'istruzione superiore: un rapporto sullo stato
delle riforme nel mondo, in cui si sostiene che i poteri decisionali,
per quanto riguarda la formazione accademica, sono destinati ad essere
sottratti non soltanto ai "governi, ma anche alle stesse istituzioni universitarie
- e in particolare alle facoltà - ed ai curricola inappropriati
ai bisogni delle economie emergenti.
I finanziamenti, basati su criteri di performatività, saranno
in futuro indubbiamente legati all'accettazione del principio di avere
attori razionali che rispondono agli incentivi monetari". Al di là
dell'indigeribile linguaggio in cui queste affermazioni sono formulate,
si tratta innanzitutto di far tornare i conti - le entrate e le uscite
- e, di conseguenza, di rispondere alle domande di formazione e produzione
di ricerca poste dal "mercato globale". Tanto per chiarire, il rapporto
sostiene che gli studenti sono da considerarsi clienti che dovrebbero
pagare l'"intero costo" del servizio loro offerto. D'altra parte, si conclude
con una nota di soddisfazione, l'accettazione dei criteri di "imprenditorialità
da parte di istituzioni, dipartimenti e singole facoltà sta già
crescendo ovunque - sommando entrate per le istituzioni a benefici per
la società" [le citazioni dal rapporto della Banca Mondiale sono
tratte da un articolo di John McMurty, At the edge of a new dark age:
the corporate takeover of higher research and education", pubblicato
su Comer, 12.1, gennaio 2000, e recentemente circolato in rete].
Sul primo punto non abbiamo dubbi, rispetto al secondo sarebbe forse interessante
indagare cosa si intenda per "società". Ma andiamo avanti.
La punta avanzata di questo trapasso sono progetti quali quello
della University of Phoenix, un'organizzazione for profit di proprietà
della Apollo Communications Inc., che produce pacchetti-formazione cui
accedono più di 50 centri studi dislocati nelle maggiori città
statunitensi. La prima succursale europea è stata aperta lo scorso
autunno. Di fronte a questa intraprendenza degli operatori indipendenti,
le grandi università americane stanno ora tentando di rilanciare,
con programmi che prevedono la collaborazione [partnership] con
"fornitori di conoscenza" privati quali Time Warner, Disney Corporation,
Microsoft e Cisco.
Questi programmi, che sono descritti come il passaggio obbligato al
fine di catapultarsi all'attacco del "mercato globale del ventunesimo secolo",
sostengono infatti gli interessati, sono in grado di offrire stradordinarie
opportunità: "mentre le università forniscono le qualifiche
accademiche ed il marchio necessari alla credibilità sui
mercati, i partners privati mettono a disposizione capacità
produttive, esperienza nel marketing e nella distribuzione e la
tecnologia necessaria ad operare su scala veramente globale" [Howard Newby,
British education must embrace a new world, in Times higher education
supplement, 10 settembre 1999].
Avanti, allora, tutti uniti sulla via della concorrenza e della competitività.
Non fosse che, con un banalissimo esercizio di lettura dialettica queste
stesse parole d'ordine rivelano immediatamente il rovescio della medaglia.
Il meccanismo della competizione impone che vi siano vincitori e vinti,
chi arriva primo e chi rimane al palo. Si compete e si concorre per accaparrarsi
porzioni di un qualcosa di cui non vi è abbastanza per tutti. Paradossalmente,
questo qualcosa nel caso in questione pare essere proprio il "mercato globale".
Vediamo: uno dei principali dati indicativi, che di solito viene preso
in considerazione dagli analisti per valutare gli indici di competitività,
è la capacità di attrarre studenti e ricercatori stranieri,
i quali portano con sé i fondi per la formazione e la ricerca stanziati
dalle imprese private e dalle varie istituzioni nazionali e sovranazionali
(sponsorizzazioni di aziende e compagnie commerciali, fondi governativi
e di istituzioni sovranazionali - ad esempio, la comunità europea
- ecc.). Favoriti dal vantaggio geo-politico di essere i paesi in cui la
prima lingua è l'inglese - l'idioma ufficiale della mondializzazione
- i principali attori in questa competizione [ripetiamolo anche noi
ancora una volta] "globale" sono gli Stati Uniti, con il 63 % delle
quote di mercato; la Gran Bretagna, con il 17 %; l'Australia, con il 10
%; ed il Canada, con il 5 %.
Ora, dalla Gran Bretagna, dopo vent'anni di incessante ascesa e la
creazione di un giro commerciale pari a 7 miliardi di sterline [che in
lire fa una cifra a dodici zeri], stanno arrivando i primi segnali di declino.
Tra il 1997 ed il 1999 il numero di nuovi arrivi è sceso da 73.240
a 64.885. A determinare questa caduta è stata innanzitutto la crisi
economica dell'area dell'estremo oriente, che era diventata una delle principali
zone di reclutamento [dati tratti da Phil Baty, A sliding share of a
global market, in Times higher education supplement, 11 febbraio
1999]. E mentre il mercato russo gioca ancora una parte insignificante,
seppure gli operatori guardino con sempre più interesse agli sconfinati
territori cinesi, pure lì si registrano incrementi largamente al
di sotto delle aspettative.
Di fronte all'affacciarsi, anche in questo settore, degli effetti della
crisi economica, arrivano dunque le proposte per un ulteriore balzo in
avanti. Prima tra tutte il forte ridimensionamento dell'università
quale istituzione locale e luogo fisico centralizzato, da rimpiazzarsi
con la nuova, piú flessibile, funzionale e profittevole "e-university".
Ovverosia, l'università virtuale, che produce corsi e diplomi da
comperare e seguire in rete, seduti a casa di fronte al personal computer.
In questo campo, sia in Inghilterra che negli Stati Uniti esistono
già una serie di iniziative, a partire dai corsi della già
menzionata University of Phoenix per arrivare al diploma in informatica
offerto dalla University of Oxford, che è interamente fruibile in
rete. A partire da qui, il percorso da seguire per il necessario salto
di qualità è oggi individuato nella formazione di consorzi
transnazionali in grado di operare via internet e di penetrare zone sempre
più ampie del mercato mondiale.
Il quotidiano britannico Financial times, tanto per fare un
esempio significativo, ha recentemente costituito una nuovo consorzio
per la produzione di corsi virtuali - Ft knowledge - in associazione
con la scuola di business della University of Michigan, Stati Uniti,
ed il Regent's College, un'altra istituzione per l'apprendimento
a distanza che ha base a New York [Lee Elliot Major, A small degree
of danger, in Guardian higher education, 15 febbraio 2000].
La prestigiosa London school of economics, pure, ha da tempo costituito
una partnership con le università americane di Chicago, Stanford,
Carnegie Mellon e Columbia per costituire il marchio commerciale Unext,
che offre corsi di aggiornamento nel settore del business.
Meno stato più mercato, dunque, secondo le ideologie alla
moda? Non proprio. Semmai, sono le infrastrutture e risorse statali a venir
messe a disposizione del mercato. In risposta al consolidarsi del primato
commerciale delle università americane, in febbraio il governo britannico
ha annunciato il prossimo stanziamento di 100 milioni di sterline [circa
300 miliardi di lire] per coprire metà delle spese necessarie a
costituire la prima grande e-university a base nazionale, che dovrebbe
essere inaugurata nei prossimi due anni. Per l'altra metà si guarda
al contributo di potenziali partners privati da ricercarsi innanzitutto
nel settore delle telecomunicazioni e alla capacità del progetto
di attrarre investimenti di capitale finanziario. Stando ai promotori dell'iniziativa,
il progetto dovrebbe offrire potenzialità di accesso ai mercati
asiatici e sudamericani finora inesplorate.
A fine marzo, comunque, ulteriori informazioni saranno rese note con
la pubblicazione dell'annunciato rapporto su The business of borderless
education [L'affare dell'educazione senza confini: cfr. Alison
Goddard, Britain flies the e-university flag, in Times higher
education supplement, 18 febbraio 2000]. Nel complesso, l'affare si
preannuncia in effetti notevole. Stando alle stime entro il 2025 la clientela
di questo settore di mercato corrisponderà a 159 milioni di persone,
di cui 87 milioni in Asia [David Blunkett, Digital dimensions, in
Guardian education supplement, 15 febbraio 2000].
Dunque, con l'avvento della società dell'apprendimento, nel
giro di una generazione o due avranno tutti una laurea in carta pergamena,
con stampato sopra il marchio dello sponsor transnazionale - Microsoft
o Walt Disney - o magari, per i meno dotati, di sottomarche locali quali
il nostrale biscione Mediaset? Non esattamente. Le cifre indicate sopra
fanno riferimento a percentuali della popolazione pur sempre basse. Dietro
alla propaganda sulla globalizzazione, ci sono le stratificazioni di classe
che attraversano, appunto, l'intero globo.
In Inghilterra, tanto per fare un esempio, proprio per finanziare la
"globalizzazione" sono state recentemente reintrodotte onerose tasse universitarie
e tagliati drasticamente i fondi per gli assegni di studio, ciò
che sul territorio nazionale ha fatto immediatamente registrare un calo
secco nelle iscrizioni ed un aumento significativo degli abbandoni degli
studenti provenienti dalla classe lavoratrice (già duramente penalizzati
dai rigidi meccanismi meritocratici e selettivi colà introdotti
in tutti i livelli del processo educativo).
Per correre ai ripari, il governo sta infatti progettando un sistema
differenziato, in cui accanto ai consorzi "globali" che offrono corsi e
masters altamente qualificati, sono previste istituzioni regionali
e percorsi di formazione e qualificazione professionale della durata di
due anni.
Infine, segnaliamo a margine che, per chi vorrà opporsi all'aziendalizzazione
dell'istituzione universitaria. evocare lo spettro del "pensiero unico"
potrebbe non essere di per sé una buona strategia. Tra le qualità
del "mercato globale", c'è anche quella di essere capace - compatibilmente
con gli interessi economici in gioco (e qui, come si suol dire, casca l'asino)
- di tollerare, almeno nel campo della produzione intellettuale (e soprattutto
per quanto riguarda aree disciplinari "marginali" quali gli studi umanistici),
una dose ragionevole di pluralismo.
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