(gr. Sokrátes; lat. Socrates). Filosofo greco (Atene 469-399
a. C.).
Proveniva da una famiglia di artigiani: il padre, Sofronisco, era scultore;
la madre, Fenarete, levatrice. Poco si sa del giovane S., mentre è
certo
che, verso i quarant'anni si dedicò esclusivamente alla ricerca
filosofica
fino a trascurare i propri beni, la moglie Santippe e i tre figli.
Si sentiva
destinato alla rigenerazione morale della società ateniese,
a seguito, forse,
della conversione all'orfismo. Trascorreva le giornate per le vie,
i ginnasi
e le botteghe di Atene, in un continuo discorrere e interrogare, per
insegnare ai suoi concittadini la ricerca della verità e della virtù.
Sicuramente, da giovanissimo, ebbe contatti con Parmenide e Zenone di Elea
e conobbe la dottrina di Anassagora. Come cittadino e soldato
diede
prova di lealtà e di coraggio. Partecipò come oplita
ad alcune campagne
della guerra del Peloponneso (431-404 a. C.). Salvò Alcibiade
ferito nella
rotta di Potidea e rifiutò le insegne al valore in favore dell'amico.
Esercitò poche volte ma con onestà le magistrature pubbliche
e
resistette in ogni momento alle pressioni dei Trenta Tiranni. Restaurato
il
governo democratico ad Atene per opera di Trasibulo (403 a. C.), S.
venne accusato di empietà (asébeia) e d'illegalità
(paranomía). L'atto di
accusa venne scritto da Meleto, ma il vero promotore del processo era
stato Anito, un autorevole esponente del partito democratico che, per
la
sua attività di mercante, era stato più volte biasimato
da Socrate. Il
filosofo fu dunque accusato d'introdurre divinità nuove rispetto
al culto
religioso tradizionale di Atene e di corrompere i giovani. Egli, infatti,
parlava spesso di un "demone" che lo avrebbe consigliato nei momenti
importanti
della sua vita, molto probabilmente una semplice figura retorica,
sotto cui si celava la coscienza morale dell'uomo giusto e la
certezza
di una missione da svolgere per la rigenerazione morale della
società greca, travagliata dalla crisi sociopolitica che era
la conseguenza
delle lotte fratricide e dell'arbitrio dei detentori del potere politico.
In
realtà i nemici di S. vedevano in lui un pericoloso rivoluzionario,
alla
stregua dei sofisti, il cui insegnamento corrompeva i giovani, istigandoli
alla critica sovversiva nei confronti delle istituzioni ed eliminando
dalla
loro mente il rispetto della legge. L'accusa di empietà rivolta
al filosofo
aveva, dunque, un valore politico più che religioso, in quanto
si riteneva
S. reo di un delitto pubblico che ledeva il culto sacro della pólis,
mirando a sconvolgere l'ordinamento civile e politico in virtù
di un
insegnamento sulla verità e sulla giustizia che minava le fondamenta
stesse dello Stato conservatore. I nemici politici di S. temevano,
infatti,
le conseguenze politiche cui portava l'esaltazione della ricerca socratica,
secondo cui il governo non spettava né a chi fosse ricco o nobile
per
diritto di nascita, né a chi fosse eletto dal popolo, ma ai
veramente
meritevoli per sapere e virtù. L'urto fra conservazione e rinnovamento
fu così inevitabile e il processo e la morte di S. ne furono
la logica
conseguenza. Nel 399 a. C., condannato dagli Ateniesi, S. bevve la
cicuta con serenità filosofica, fedele fino alla fine al suo
insegnamento
sulla giustizia e sul rispetto della legge cui l'individuo deve subordinare
il
proprio bene individuale in virtù di quello collettivo. S.,
infatti, in
procinto di morire (Critone) preferì sopportare un illegittimo
decreto
che lo condannava per illegalità, piuttosto che commettere a
sua volta
ingiustizia (antadichein) fuggendo dal carcere, secondo il consiglio
dell'amico Critone, e sottraendosi in tal modo al suo debito verso
la
giustizia legale (díche), la quale esigeva che, una volta emessa,
la
sentenza di morte venisse eseguita.
Filosofia: le fonti
S. credeva che lo scritto fissasse per sempre il pensiero togliendo
ogni
stimolo alla ricerca filosofica che è invece esame incessante
di sé e degli
altri. Il suo insegnamento è perciò tutto orale e ci
giunge attraverso
Senofonte, Platone e Aristotele. Senofonte, nei Detti memorabili, ne
fa
un uomo pio, preoccupato prevalentemente dei problemi etici e della
lotta contro le passioni. Platone lo presenta come avversario dei sofisti;
è probabile, però, che nei Dialoghi Platone parli attraverso
la figura
maestro. Non si può attribuire a S. la dottrina delle idee di
cui non v'è
cenno né in Senofonte né in Aristotele. Quest'ultimo
riconosce a S. il
merito di aver per primo scoperto il metodo scientifico: l'induzione
e
definizione del concetto sono, infatti, i principi della scienza. La
ricerca
socratica non mira però alla conoscenza, ma si ferma all'esame
critico
normativo dell'operare e del vivere umano, lasciando ai successori,
Platone e Aristotele, il problema della determinazione dell'essenza
o sostanza.
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