sf. [sec. XIII; dal lat. dialectica (ars), che risale al gr.
dialektike (téchne),
(arte) del discutere, ragionare]. Metodo di conoscenza imperniato
sulla
sulla discussione, sul dialogo; arte del ragionare. Per estens.,
capacità di
presentare le proprie argomentazioni in forma particolarmente serrata
e
convincente.
Filosofia
Aristotele attribuisce l'invenzione della d. a Zenone di Elea. La d.
veniva
cioè intesa come formulazione di ipotesi comportanti conseguenze
con
esse incompatibili o inaccettabili. È la riduzione all'impossibile.
Tale
metodo fu esasperato dai sofisti. Protagora affermò che per
ogni cosa è
possibile fare due ragionamenti opposti in un sistema di asserzioni
e
contro-asserzioni che diventerà l'archetipo della d. medievale.
In Socrate
la d. diventa ricerca della verità attraverso domande e risposte
in cui si
confutano le definizioni o le ipotesi comportanti conseguenze
inaccettabili. Per Platone la d. è il massimo metodo filosofico;
egli la
intende: come metodo di discussione; come metodo ipotetico di
confutazione; come sintesi dei metodi di divisione e di riunione.
Aristotele dà un'esposizione sistematica della d. distinguendo
tra
ragionamento eristico, il ragionamento scorretto o le cui premesse
sembrano probabili; dialettico, quello in cui le premesse sono accolte
in
generale come probabili ma non evidenti; dimostrativo, quello in cui
le
premesse sono vere ed evidenti. La d. non è il metodo della
scienza, ma
è un utile strumento nell'esame dei principi indimostrabili
della scienza.
Per gli stoici la d. è sinonimo di logica, ma si estende anche
all'epistemologia, alla grammatica e alla linguistica. Diogene poi
articola
la d. in due parti: sulle cose significate e sulle cose significanti
(i termini
del linguaggio). Nel Medioevo la d. è sinonimo di logica, ma
nella
Scolastica significa ricerca attraverso la discussione. Questa accezione
viene usata senza sostanziali modifiche sino a Kant, per il quale la
d. è la
logica dell'apparenza, dell'illusione, perché in essa sono esposte
le
contraddizioni in cui cade la ragione quando va oltre l'esperienza.
Nel
pensiero tedesco, la d. come sviluppo di tre momenti, tesi, antitesi
e
sintesi, venne introdotta da Fichte, per il quale l'antitesi non è
deducibile
dalla tesi e la sintesi è data dalla «determinazione reciproca
degli
opposti». Analoga è la posizione di Schelling. Hegel diede
alla d. il suo
massimo sviluppo e la intese come superamento di un concetto
attraverso il suo contrario in un'unità superiore, in cui questi
si
conciliano. Si perviene così, attraverso il superamento delle
contraddizioni, a verità sempre più alte. Ma in Hegel
la d. non è solo un
processo del pensiero, ma della realtà stessa, di cui essa garantisce
uno
sviluppo unitario e continuo superando ogni contraddizione e
opposizione organica. Sia nella destra che nella sinistra hegeliane
la
nozione di d. rimane quella del maestro. Una diversa fondazione della
d.
dà Feuerbach che opera un rovesciamento antitetico, per cui
essa non è
più originata dall'idea, dal pensiero ma dall'essere materiale,
dall'uomo.
In questa direzione prosegue Marx, per il quale sussiste l'esigenza
hegeliana di una d. della totalità, di una d. per intendere
la realtà come
processo. Egli però ne respinge l'uso speculativo, sostituendo
alla d.
come processo del pensiero la d. come processo materiale dei fatti.
Per
Kierkegaard la d. è data dall'evidenziare il distacco tra gli
opposti in
quella che egli chiama la “tensione” che permane tra di essi, negando
così ogni possibilità di conciliazione. Croce la intende
come
contrapposizione degli opposti e dei distinti, che mantengono il loro
carattere anche nella sintesi. Gentile respinge la d. hegeliana, perché
si
sviluppa anche al di fuori del soggetto. Nell'esistenzialismo, alla
d.
idealistica o a quella materialistica subentra una d. fondata sull'uomo,
inteso come singolo individuo isolato.
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