Alberto Alberti
Questi che stiamo vivendo
non sono anni semplici da descrivere e interpretare. Certo, fare scuola non è
mai stato facile. Al di là delle rappresentazioni romantiche, il processo di
acculturazione, per sua natura, ha una dimensione fortemente drammatica, direi
conflittuale. Alla pretesa degli adulti di portare le nuove generazioni dentro
il paradigma culturale e valoriale vigente, si oppone l’irriducibile
individualità del singolo. In ogni alunno c’è sempre, più o meno sotterraneo,
l’impulso egocentrico e l’irrazionalità. Nel migliore dei casi c’è un Gian
Burrasca capace di mettere in crisi, in modi di volta in volta originali e
imprevedibili, gli adulti che si prendono cura di lui, senza suscitare peraltro
la simpatia del personaggio letterario.
Ma oggi non è questo (o non
è solo questo) il problema. Nelle scuole si soffre molto di più che nel passato.
La fatica di insegnare e di apprendere diventa ogni giorno insopportabile non
per la sua dimensione specifica ma per il contesto confuso e contraddittorio in
cui essa deve essere durata.
Il nostro sistema al suo
interno è attraversato da due linee di forza oggettivamente alternative e perciò
conflittuali, che tirano da un lato e dall’altro tutti gli operatori. Solo che
il conflitto non è dichiarato, i suoi termini non sono esplicitati con la
chiarezza necessaria, meno che mai elaborati dialetticamente. Sotterranei e
nebulosi, restano là, come macigni, a pesare sulla quotidianità di insegnanti e
dirigenti scolastici.
Da una
parte sopravvivono le stelle polari della nostra più nobile tradizione: i tempi
distesi, i curricoli arricchiti, la molteplicità di percorsi didattici. Vale a
dire la ricerca di risposte articolate, capaci di incrociare positivamente i
bisogni formativi di una classe di alunni, - bisogni che non solo sono di
intensità e natura diversa, ma si esprimono attraverso forme di pensiero di
varia natura (le intelligenze multiple di Gardner), e con sensibilità e
interessi “naturalmente” differenti per quantità e qualità. La scuola
“individualizza” i propri interventi, li moltiplica e li modula adeguatamente,
nella consapevolezza che ognuno di noi può raggiungere il risultato d’eccellenza
universalmente atteso, se procede per le vie a lui più congeniali. L’imperativo
pedagogico è che tutti gli alunni - non uno di meno – arrivino al successo
scolastico, ciascuno con la propria misura di impegno ma sempre all’interno di
una bontà di apprendimento comune[1]. In
altre parole, non solo eccellenza individuale, ma anche garanzia che tutti,
senza escludere alcuno, siano posti in grado di pervenire a risultati
sostanzialmente analoghi.
È il
paradigma della scuola di massa. Che è scuola di qualità quando riesce a rendere
concreta e affidabile quella garanzia circa il successo di tutti. Quando si
arricchisce di tempi, competenze, mezzi e funzioni per rimuovere universalmente
l’ostacolo dell’ignoranza e della scarsa formazione, e per ottenere quella
uguaglianza sostanziale di cui parla l’art. 3 della nostra Carta fondamentale. E
anche per consentire a ogni cittadino di partecipare al benessere comune con
ogni sua capacità raffinata e potenziata al massimo da scienza e cultura, come
vuole il precetto costituzionale contenuto nel successivo art.
4.
A
fronte a ciò, l’idea, cresciuta negli ultimi decenni, che quella ricchezza è
tutta uno spreco e quella diversità di itinerari un fattore di dispersione. “La
ricreazione è finita”[2], si
disse; non bisogna perdere tempo con attività di arricchimento del curricolo.
L’intervento della scuola può ridursi a una didattica semplice e secca,
unilineare, tutta concentrata sugli apprendimenti essenziali, come la lingua e
la matematica, e sulle formae mentis
(per dirla con Gardner) più allineate ai modelli canonici. A loro volta, i
contenuti potranno essere minimi e semplici, i tempi ristretti, gli insegnanti
in numero ridotto, niente specialismi e competenze accessorie. Leggere, scrivere
e far di conto. Che si vuole di più?
A questa idea di scuola
semplificata e monoculturale (che, limitando le sue funzioni, diminuisce
d’importanza e arretra di fronte alle scelte e all’azione della famiglia), si
assegna il compito di dare spazio ai cosiddetti “spiriti vitali” della persona: la libertà
d’iniziativa, l’impresa, il mercato.
Il massimo dell’elaborazione tecnico didattica diventa così la competitività.
Che ognuno giochi liberamente le proprie carte, e tutti andranno avanti. Non c’è
bisogno di nient’altro. Fra poco si dirà che nemmeno l’insegnante è necessario!
Il
messaggio sotterraneo (ma non sempre sotterraneo) è che chi non ce la fa è
colpevole di suo. La scuola è esonerata da ogni responsabilità in merito
all’eliminazione dei gap socioculturali. Le nuove politiche di discriminazione e
di selezione classista passano in maniera indiretta e con provvedimenti
obliqui.
La
singolarità (e quindi la gravità) della situazione è data dal fatto che nessuno
pubblicamente si assume la responsabilità di dichiarare finita l’epoca della
scuola per tutti e di proclamare la bontà del principio pedagogico che punta ad
escludere e a emarginare i più deboli. I cultori di simili idee neoliberiste
sanno bene che la maggioranza degli italiani e la quasi totalità delle persone
che operano nel campo della formazione non potranno mai accettare, per
esplicito, una pedagogica dell’esclusione e la conseguente liquidazione della
scuola pubblica, così come l’abbiamo costruita in oltre due secoli di storia
europea. Perciò non si fa economia nel proclamare pubblicamente e solennemente
il diritto per ogni ragazzo di pervenire ai più alti livelli di formazione. Solo
che, passando dai proclami all’amministrazione concreta, si scelgono e si
impongono strumenti operativi, meccanismi valutativi e soprattutto quantità di
risorse, puntualmente e rigorosamente calibrati sull’idea che la scuola può fare
poco o niente per promuovere tutti, e che siano i singoli e le loro famiglie a
dovervi provvedere.
È il
700, prima dell’Illuminismo e prima della Rivoluzione francese. Allora la scuola
pubblica non esisteva (o era un fatto marginale), ora la si vuole ridurre a
strumento sussidiario dell’iniziativa privata; allora nei palazzi dei nobili e
dei ricchi borghesi c’erano i precettori, oggi ci sono le scuole paritarie!
La situazione è allarmante. Questa
politica neoliberista, sotterranea e oscura, crea un permanente stato di
confusione e di conflitto in chi opera nella scuola e cerca di realizzare
risultati di equità formativa. E così anche il più consueto lavoro didattico
diventa motivo di sofferenza e di inquietudine.
D’altra parte, nemmeno la
precedente fase della nostra esperienza può costituire quel paradiso perduto di
cui qualcuno favoleggia. E comunque non basta da sola a far rinascere nelle
scuole un’atmosfera di impegno sereno e produttivo, anche quando avremo liberato
il campo dalle riforme neoliberiste della
Brichetto.
Non solo perché nessuno può
tornare indietro, puramente e semplicemente, senza tener conto dei mutamenti
che, in ogni caso, si sono realizzati, ma anche perché nel passato non mancavano
seri problemi. La scuola di tutti e per tutti, per dirne una, non riusciva a
dare a ciascun alunno quella qualità e profondità di competenze che sono
necessarie nella società in cui viviamo. Lo stesso tempo pieno, in nome del
quale si è avuta negli ultimi anni, la più seria e diffusa opposizione alla
politica della Ministra, non può dirsi essere stato dappertutto il modello di
riferimento ideale.
Personalmente, ciò che
rimpiango del passato – e che perciò penso dobbiamo recuperare e ritornare a
praticare, - non sono le soluzioni date ai vari problemi, ma piuttosto il
carattere partecipativo e popolare delle battaglie che si sono fatte, per
esempio a proposito del tempo pieno o a proposito della riforma dei programmi
elementari dell’85.
Un progetto di cambiamento
deve essere anche un “moto popolare”, un sentimento diffuso, ricco di attrazione
culturale e pratica, capace di mobilitare energie e suscitare la partecipazione
creativa di tutti gli interessati, operatori o utenti, amministratori pubblici,
dirigenti o semplici osservatori disinteressati. Capace soprattutto di
modificare nel profondo il modo di pensare e di agire, i moti affettivi e gli
atteggiamenti delle persone, insegnanti, genitori, studenti, amministratori
della cosa pubblica, lavoratori, cittadini e
politici.
Ecco. Il nuovo cammino
della scuola, dopo
Questa necessità di un
coinvolgimento popolare non è solo una questione metodologica e di strategia
politica. Non si tratta, voglio dire, di trovare una ricollocazione sociale e un
imprimatur democratico che pure dovranno avere le nuove riforme.
C’è soprattutto una più
precipua e urgente esigenza cognitiva. Lo svecchiamento dei curricoli di studio
e, in generale, la riflessione sulla natura, i caratteri e la strutturazione
dell’universo culturale e conoscitivo non possono non prendere le mosse dalla
condizione in cui oggi si produce e si consuma la
conoscenza.
Non siamo più al tempo in
cui il Sapere – con la maiuscola - era monopolio di un ristretto nucleo di
persone, e viveva in una dimensione rarefatta e chiusa, presentandosi con
caratteri chiari e distinti, campi nettamente separati e strutture stabili,
dure, tramandabili in forme rigide di generazione in
generazione.
Intorno a noi, nella vita
di tutti i giorni, nel lavoro, nelle attività di svago e di tempo libero, è
scoppiata una “nuova” cultura: globale, multimediale, dinamica, flessibile,
complessa, «segnata più dal simbolismo che dal concetto, più dalla percezione
che dalla verbalizzazione, più dalla sintesi che dell’analisi.
Non è solo questione di
contenuti e strumenti. Mettiamoci pure la conoscenza di altre storie,
letterature e fenomeni artistici, le religioni e i costumi esotici; mettiamoci
pure gli sviluppi tecnologici, la comunicazione in tempo reale, la rete che
avvolge il pianeta; mettiamoci pure la globalizzazione dei fenomeni sociali,
delle violenze come delle opere di bene, delle miserie, calamità e guerre, come
degli aiuti umanitari, solidarietà, salute, pace; e mettiamoci ancora gli
spostamenti delle popolazioni, i clandestini, i fondamentalismi delle varie
matrici, e tutto il resto. Ciò che merita di essere sottolineato non è né il
numero né la complessa varietà di tanti fatti materiali e mentali. È che per
merito (o, se si vuole, per responsabilità) di questi fenomeni, sono cambiati
profondamente i caratteri formali e strutturali del nostro rapporto con il mondo
della conoscenza.
Ci troviamo a fare i conti
con una cultura, «fondamentalmente comunitaria, simbolica, sintetica, festosa,
rumorosa, plurilinguistica e, soprattutto, creativa»[3] - e perciò in tutto e per tutto non solo diversa ma
addirittura antitetica rispetto al canone tradizionale della scuola, dove vige
ancora un impianto rigorosamente strutturato in blocchi rigidi di conoscenza:
fissi, compatti, scanditi in precise sequenze, ognuno separato dall’altro, e
tutti da seguire secondo ordine e disciplina imposti arbitrariamente e
uniformemente a-priori.
Quale che sia il giudizio
che si possa dare sui contenuti che sono messi in circolo e sulle tecnologie
usate, un fatto è indubbio: questa nuova esplosione culturale, per il suo
semplice esistere e manifestarsi, distrugge il vantaggio di posizione di cui
godeva la scuola fino all’altro ieri. La scuola, cioè, non è più l’unica sede e
l’unica fonte di conoscenza e di alfabetizzazione: è solo una fra le tante
agenzie formative. Non c’è più un “dentro” e un “fuori”, con il dentro (la
scuola) per definizione alfabeta e colto e un fuori fatto solo di analfabetismo
e ignoranza. I giovani, i ragazzi e perfino i piccolissimi sono immersi fin
dalla nascita in quel “brodo mediatico” in cui conoscono e praticano
concretamente e cospicuamente altre vie di formazione. Non si percepiscono
affatto come mancanti di qualcosa, alla Socrate (so di non sapere), e
anzi presumono di sapere cose importanti, diverse ma non meno apprezzabili di
quelle che dà la scuola. Spesso si sentono e sono estranei o almeno indifferenti
alle forme culturali ereditate dal passato, e addirittura ostili nei confronti
dei tradizionali canoni didattici basati essenzialmente sull’idea, non di
produzione di conoscenze, ma di “trasferimento” di conoscenza mediante la
parola.
Tutti noi, ma soprattutto i
giovani, preferiamo sempre più un approccio multimediale a quello puramente
linguistico. Non solo. Ci troviamo sempre più a maneggiare saperi che non sono
trasferibili (o sono trasferibili solo approssimativamente) attraverso la parola
parlata o scritta. Bruno G. Bara parla di «conoscenza tacita» o K-tacita, gran
parte della quale è «costituita da procedure opache: modi di agire che scattano
automaticamente, senza bisogno di controllo o attenzione». Per esempio, andare
in bicicletta, il distinguere l’aroma di un sigaro toscano, il sapore di un
vino, come il barbera, «tutte cose che un esperto conosce bene e sa fare
perfettamente, ma che sono traducibili verbalmente solo con grossolane
approssimazioni»[4]. Viene fatto di ricordare quello che scrive Federico II
circa la sua formazione, assorbita attraverso gli occhi, le orecchie, il
naso nella Palermo della sua infanzia: il Palazzo dei Normanni, ma anche il
porto, il mercato, le strade popolate da svevi, arabi, normanni. «Ho amato
con ogni mia forza “formam eius”», di Palermo e del suo Palazzo. «Ha amato
il principio formale della cultura, la sua figura, il bello nella sua totalità.
Non qualcosa che si legge, ma che si percepisce visivamente, che si tocca, che
si annusa. E scrive ancora, infatti, che con ogni forza ha aspirato (tirato
su con le narici, ma anche avendoli come meta) “in odore unguentorum suorum”:
gli odori dei suoi unguenti»[5].
Ciò che voglio dire è che
nel paradigma multimediale, studio e saperi diventano altra cosa - più ricca e
coinvolgente e, spesso più efficace - rispetto allo studio e ai saperi
scolastici. L’appellarsi al valore delle discipline non è sufficiente a ribadire
o ripristinare il primato della scuola. Sia perché le discipline scolastiche
sono di solito superate dall’avanzare della ricerca sia perché anche nella
cultura praticata nel quotidiano si danno, oltre che frammenti di conoscenza
disciplinare, forme di organizzazione del pensiero che nulla hanno da invidiare
alle discipline.
Di modo che l’insegnante
non ha più l’autorevolezza per dire: «tu non sai e devi imparare». Perché il
“non sapere” non esiste. Se nessuno può sapere tutto, ognuno tuttavia sa
qualcosa. E magari quello che sanno gli alunni va, in determinati domini
cognitivi, anche al di là di quello che sa lo stesso insegnante (penso
all’informatica, alle lingue straniere, alla musica moderna e, in genere, a
quella che si definisce “cultura giovanile”).
Ma c’è qualcosa di più
importante che la natura e la qualità degli “oggetti” dell’apprendimento. C’è
che nella cultura ambientale, quella che pratichiamo o con cui veniamo a
contatto tutti i giorni, non incontriamo soltanto conoscenze e frammenti di
conoscenza, anche disciplinari. Ci sono in verità altri due filoni da
esplorare.
Un filone è quello della natura e della qualità dei processi
mentali implicati, e della qualità di prestazioni che, in corrispondenza,
sono richieste. Nelle attività conoscitive di tutti i giorni, infatti, ci sono,
sono necessarie, si esercitano e si consolidano speciali abilità di base che di
solito lo studio curricolare non cura (o addirittura scoraggia) e che tuttavia
sono estremamente importati anche per gli studi di alto profilo. Parlo di
intuizione, creatività, partecipazione emotiva, pensiero sintetico e simbolico,
circolarità e reticolarità dei percorsi, atteggiamenti e scelte materiali e
ideali, strategie, criteri di valutazione, progettualità, perfino antipatie e
simpatie ecc.
Per far emergere e
valorizzare anche questi aspetti della formazione, l’insegnante deve puntare a
una integrazione alla pari fra
pensiero di tipo analitico disciplinare e pensiero globalizzante. Perciò deve
costruire curricoli di studio “aperti”, che non partano dai libri di testo e da
un sapere precodificato, e che, invece di essere disegnati esclusivamente con i
dati “puri” delle discipline, siano ancorati alla vitalità mobile e fluttuante
dell’esperienza del mondo, alla cultura giovanile, alla tecnologia informatica,
alla musica e allo sport. Deve individuare, tra tanta messe di sollecitazioni,
quegli elementi che maggiormente si prestano a esercitare e costruire forme di
pensiero più potenti: la riflessione, la concettualizzazione, l’astrazione, il
giudizio, la creatività.
Da qui nasce un primo itinerario di innovazione
che riguarda tanto il curricolo (un ragionamento sui caratteri delle discipline
tradizionali ma anche una messa a punto delle nuove aree di sapere che
costituiscono le “discipline di scopo”, dall’ecologia alle trasformazioni,
dall’intercultura alla cittadinanza, dalla tecnologia alla salute pubblica,
ecc.), quanto la formazione dei docenti, - da reinventare di sana pianta lungo almeno tre direttrici: a)
la riconsiderazione della natura della conoscenza, e quindi delle discipline,
nel paradigma della multimedialità; b) la dimensione relazionale e comunicativa
o didattico/relazionale nei processi di apprendimento in una classe o gruppo
sociale; c) i meccanismi psicologici di sintesi tra esperienza del mondo e
formazione dei concetti e delle idee (le intelligenze multiple e la “fissazione
delle credenze”, per dirla con Fodor[6]).
Un secondo filone d’analisi
è quello che riguarda le caratteristiche formali che devono assumere i
processi didattici basati effettivamente sulla multimedialità. In modo
schematico:
a) Il primo carattere sta
nella natura democratica della conoscenza multimediale. Tutti possono
comunicare/ricevere tutto perché, a differenza di quanto succede
nell’insegnamento tradizionale (dove viene prima la grammatica e poi il testo),
qui prima del codice viene il testo. O più esattamente il livello di
codificazione è così debole che anche chi non conosce il codice è in grado di
utilizzare (mandare o ricevere) un testo.
b) Collegato al primo
(assenza di forti vincoli da rispettare nella codificazione) è il secondo
carattere della multimedialità: la sua ineliminabile ambiguità sia in
uscita che in entrata. Il testo si presta a una molteplicità di codifiche e di
utilizzazioni e va soggetto a numerose elaborazioni e “passaggi” (per esempio,
dal libro al film). Così accade spesso che il messaggio ne risulti “trasformato”
più che semplicemente trasferito[7].
c) Per avere una
comunicazione sicura e condivisa occorre procedere con una continua attività di
negoziazione sociale non sui codici (che restano deboli e flessibili) ma
sulle “pratiche testuali” e sulle loro diverse realizzazioni (ripetizioni e
variazioni). La situazione comunicativa reale sintetizza e si modula in rapporto
alle specifiche condizioni sociali. La conoscenza diventa un processo di
socializzazione, dal momento che l’integrazione multimediale dei testi
(sarebbe meglio dire la loro fusione), non può prescindere dal contesto (medium
utilizzato, target, occasione, ecc.).
La didattica torna a essere
(o si conferma) pratica cospicuamente sociale[8].
Note
[1] L’aumento dei tempi di studio e l’allargamento della formazione comune ha segnato la storia della nostra scuola da Casati alla legge 148/90. Aumentarono gli anni (sia quelli obbligatori che gli altri, dalla scuola dell’infanzia alla quinquennalizzazione degli istituti superiori), i giorni (dalle poche settimane di Casati ai 200 giorni della 517/77), le ore (dalle 24/25 settimanali ai tempi pieni e prolungati). Ci fu un forte arricchimento dei curricoli, sia in chiave di approfondimento delle tradizionali “materie” scolastiche sia in chiave di diversificazione degli approcci didattici e dei percorsi cognitivi, nella convinzione che per rispondere in modo congruo ed efficace ai bisogni diversi dei diversi soggetti occorresse operare con una varietà di registri e di offerte formative. Cfr. A. Alberti, Tempo pieno, la qualità dell’apprendere in E. Catarsi (a cura) La scuola a tempo pieno in Italia: una grande utopia?, Edizioni del Cerro, Tirrenia (PI), 2004.
[2] È questo, come è noto, il titolo di una fortunato libro che fece epoca: N. Bottani, La ricreazione è finita, Il Mulino, Bologna, 1986
[3] A.Thiery, Pensiero verbale e pensiero percettivo, in T. Sirchia (a cura di), Verso la scuola multimediale, Editrice Scolastica Italiana, Marsala, 1994, p. 51
[4] Bruno G. Bara, Scienza cognitiva, Bollati Boringhieri,Torino, 1990, pp. 112-113
[5] Così Thiery presenta il contenuto della lettera che
Federico II manda nel 1232 all’Università di Bologna, accompagnando il dono di
testi greci recuperati da documenti siriaci, ebraici ed arabi e fatti tradurre
in latino dagli studiosi della Magna Curia palermitana. A Thiery, loc. cit., pp. 52-53.
[6] Il termine «credenza» non va inteso nel senso corrente di «convincimento privo di prove e dimostrazioni», «nozione invalsa per tradizione», «opinione comune», ecc., ma nell’accezione, propria dei cognitivisti, di conoscenza fondata e perciò degna di essere creduta; o meglio, di atteggiamento mentale responsabile e impegnato nei confronti della conoscenza. Con l’espressione «fissazione delle credenze percettive», J. A. Fodor, per esempio, indica il processo attraverso cui l’individuo giunge alle «rappresentazioni corrette». Poiché i sistemi di input si basano su facoltà verticali, hanno ciascuno una specificità di dominio e ci fanno conoscere i vari oggetti sulla base di una quantità di informazioni in un certo senso «specialistica» che è minore di quella che l’organismo ha a disposizione in proposito, ci devono essere, a livello di sistema centrale, dei meccanismi cognitivi di tipo orizzontale, che non hanno specificità di dominio cognitivo, operano in modo trasversale simultaneamente sulle varie rappresentazioni trasmesse dai vari sistemi di input, e ci consentono di correggere le rappresentazioni particolari alla luce delle conoscenze generali (per esempio, le informazioni depositate in memoria) e dei risultati simultanei dell’analisi degli input in altri domini. Nella descrizione di una mente «modulare», che funziona per moduli percettivi legati alle facoltà speciali di tipo verticale (la teoria delle intelligenze multiple e dei domini cognitivi diversificati), questi meccanismi capaci di operazioni crociate assicurano che «quel che l’organismo crede è determinato da tutte le informazioni a cui ha accesso». J. A. Fodor, La mente modulare, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 159 e segg.
[7] Paolo Fabbri scrive in proposito che «al minimo di
“impredicibilità” del messaggio corrisponde il massimo di “imprecisione” sulla
sua ricezione». P. Fabbri, Le
comunicazioni di massa in Italia, “Versus”, n.
5/1973
[8] Per tutto questo, cfr. T. Sirchia, Riambientazione antropologica
e scuola multimediale, in Verso la scuola multimediale,
cit.
Alberto Alberti, maestro, direttore didattico, ispettore
tecnico, docente universitario, coordina le attività della “Città Educativa” del
Comune di Roma. Ha scritto numerosi testi e collabora con riviste
specializzate.
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